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MONNAIE DE SINGE The last chance ACB 2018 FRA

Il gruppo francese, dopo aver esordito nel 2001, giunge oggi al suo quinto lavoro. Le varie pubblicazioni sono sempre state intervallate da archi di tempo abbastanza ampi, che vanno dai tre ai sei anni. La denominazione scelta (letteralmente: soldi di scimmia) sembra che derivi dalle storie medievali riguardanti vecchi clown da strada, scimmie e ponti che si potevano attraversare gratuitamente; oggi è un modo di dire che viene applicato in lingua francofona in diverse circostanze e con sfumature via via differenti, ma che in senso generico riguarda le truffe, il non pagare un creditore. Viene anche accostato all’inglese monkey business, visto come uno “scherzo” ma anche come qualcosa “nonsense”. Trovata una stabilità di formazione nel 2015, il sound della band si mostra cupo, dark e anche abbastanza monotono. Dal penultimo album il ruolo di vocalist è stato affidato ad Anne-Gaëlle Rumin-Montil, ricreando così quella classica ambientazione un po’ gotica e un po’ sinfonica spesso più di tendenza che di sostanza. Sul web, i media francesi non si sono certo risparmiati con le lodi per questo concept sulla fuga dalla terra, cioè l’ultima alternativa del titolo, dovuta allo sfruttamento planetario andato oltre le possibilità del singolo pianeta stesso (vengono citati numeri come 1,68 Terre o 2,8 Terre nel 2050…). Fuga al di fuori del nostro Sistema solare come tappa obbligata nel 3003, narrato con dei testi comprensibili e comunque con dei buoni contenuti. Musicalmente, dopo l’iniziale “I am” (è scritto comunque attaccato…) non è che i pezzi presentino chissà quale varietà; ci sono da menzionare “Seven Billion Dreams”, tra voci campionate e ambientazioni inquietanti, assieme ad “Emergency” e la title-track per le loro code chitarristiche che creano un’ottima atmosfera di desolazione cosmica, soprattutto nel secondo caso. Il vecchio cantante Philippe Glayat fa la sua comparsa su “Not Under Fifty”, destando buone impressioni con uno stile che a tratti potrebbe ricordare l’ultimo David Bowie, grazie anche ad un crescendo sonoro di tensione. Ecco, se le caratteristiche di quest’ultimo brano fossero state sviluppate per l’intero album assieme a qualche bell’assolo di cui i nostri si sono dimostrati capaci, si sarebbe avuto per le mani del materiale oggettivamente interessante.
Non male “December 3003”, anche se i soliti effetti con computer che ripetono parole a vuoto nello spazio profondo, commentati da un drammatico pianoforte, diventano abbastanza ripetitivi. Si va chiudendo con “Magic Tree”, My Lucky Star” e “Happy Birthday” che vanno pian piano riaccendendo la speranza.
Sono stati tirati in ballo come metro di paragone i Porcupine Tree, ma quelli oramai valgono per tutto e quindi, quando li si nomina, non si sbaglia praticamente mai! Di certo, Steven Wilson ha man mano incupito e al contempo indurito la proposta della sua “creatura”, andando sempre più lontano dalla proposta dei primi album, e quindi qualche assonanza ci può stare. Qualcuno ha anche coniato il termine post-prog, spiegando che si tratterebbe di un post-rock però più d’atmosfera… Insomma, di quest’ultima uscita – nonostante, lo si ribadisce, tutti hanno parlato bene – molti non sapevano bene cosa dire… e come accade in questi casi si è scritto anche senza cognizione. Un male per questi ragazzi transalpini, che nell’arco di alcuni mesi potrebbero rischiare di non essere più ricordati, nonostante le belle parole.



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Michele Merenda

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