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CHARLIE GOOD Charlie good autoprod. 2018 USA

Questa è la storia di un gruppo di amici di età matura che periodicamente si riuniscono per giocare a poker nelle colline dietro a Los Angeles ma che, all’inizio di ogni serata ludica, si scaldano un po’ le mani suonando, essendo anche musicisti. Due di loro, il tastierista Dan Stein ed il chitarrista Chris Westfal, scoprono di avere praticamente le stesse passioni musicali per il Prog classico (ELP, Genesis, Pink floyd, Rush…) e per i mostri sacri della fusion (Jeff Back, Mahavishnu Orchestra…), decidendo di lì a poco, dopo aver imbarcato anche il bassista Russ Landau, affermato compositore di musica e colonne sonore per la TV. Non c’è traccia né menzione di alcun batterista, quindi non è dato sapere se questa sia suonata da qualche misterioso ospite o, più probabilmente, si tratti di batteria programmata.
I nostri tre di lì a poco usciranno con questo loro album d’esordio, costituito da 9 brani strumentali (per un totale di 51 minuti) che tengono fede alle ispirazioni sopra accennate, mescolando hard Prog, un po’ di Prog sinfonico e un tocco di fusion. Il risultato pare essere sufficientemente interessante, ancorché un po’ altalenante. Ci sono momenti in cui ci ritroviamo ad ascoltare delle jam muscolari con tanta tecnica e poca anima, se intendete ciò che voglio dire, altri invece in cui il brano assume forme decisamente stuzzicanti, con belle intuizioni e melodie efficaci. La durata dei brani è abbastanza standardizzata, tra i 5 e i 7 minuti, quindi lo sviluppo delle canzoni non si spinge mai al di là di uno schema abbastanza uniforme, con il rincorrersi tra riff di chitarra e fughe di tastiere che è certamente interessante e tecnicamente ineccepibile ma che alla lunga rischia ovviamente di stancare l’ascoltatore.
Come dicevo, fortunatamente le canzoni non sono prive di melodia o di situazioni un po’ eclettiche che movimentino un po’ l’andamento generale. Molto bello ad esempio è il secondo brano “Don’t Touch That”, con una chitarra classica che fa capolino e belle atmosfere maggiormente sbilanciate sul versante sinfonico, o la strana “Digitally Impaired”, caratterizzata da un violino (sicuramente riprodotto con le tastiere), ma anche l’episodio più lungo dell’album (7:04), “The Quest”, che è costituito è vero da una lunga sequela di assoli e riff che si rincorrono e si ripetono a perdifiato, ma con belle ed avvincenti atmosfere epiche che senza dubbio riescono a divertire.
Alla fine l’album è abbastanza divertente, scivolando via anche nelle sue parti meno stimolanti e riuscendo comunque a coinvolgere l’ascoltatore, non risultando senza dubbio memorabile ma piacevole, questo sì.



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Alberto Nucci

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