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MANGROVE Facing the sunset Mangrovian Music 2005 NL

Seconda prova discografica “piena” per gli olandesi Mangrove, dopo un EP e soprattutto un album più che promettente che ha portato alla ribalta la loro proposta raffinata, melodica e sufficientemente personale.
La musica dei Mangrove contiene elementi new-prog così come riferimenti ai giganti del decennio d’oro, in particolare le tastiere ispirano suggestioni genesisiane spesso rafforzate da una chitarra che preferisce indulgere su note sostenute e prolungate seguendo gli insegnamenti di Steve Hackett; le ritmiche più lineari evitano di ricondurre il tutto ad un esercizio di stile e ci rammentano che stiamo ascoltando un album con lecite pretese di modernità.
Siamo in presenza di un concept contenente quattro tracce di lunga durata (tutte sopra i 10 minuti), con la conclusiva “Hidden Dreams” a fare la parte del leone; per chi volesse approfondire la storia sottesa, il booklet narra le vicende del protagonista: un uomo chiamato “Nobody” che crede di essere ciò che la gente pensa di lui, rifiutando valori umani come la verità e la fiducia…
La title-track posta in apertura è un brano che ben riassume lo stile della band, ossia un rock sinfonico senza troppe accelerazioni o trovate ad effetto, ma abbastanza intrigante da mantenere sempre vivo l’interesse: si arriva alla fine del pezzo senza quasi accorgersi della durata non proprio “sanremese”, cullati dalla voce rassicurante del chitarrista Roland van der Horst e dalla serenità del piano e dei synth di Chris Jonker, tastierista dal gusto non comune.
“I Fear the Day” non si distacca molto dallo schema compositivo del brano precedente, anche la ritmica è di nuovo mid-paced: le parti strumentali la fanno da padrone, la chitarra si produce in assoli godibili, duellando con le tastiere sempre discrete (qua e là si possono distinguere gli archi del Mellotron, forse campionato) ma base indispensabile per fornire libertà d’azione agli altri strumenti.
Il terzo brano è strumentale, e finalmente la ritmica inizia a salire, ma la sezione più sperimentale e up-tempo lascia presto spazio ad una parte più atmosferica affidata alla chitarra classica; il finale è di stampo Camel/Pendragon, anche se un paragone meno generico potrebbe essere instaurato con i nostri Night Watch dell’esordio.
La chiusura affidata a “Hidden Dreams” (21 minuti) parte senza grosse sorprese, con un tempo sostenuto ed una chitarra che qui ricalca stilemi più rock che altrove (insomma, più Petrucci che Hackett!) e si contende la ribalta con l’organo di Jonker; le sezioni più riflessive mettono in mostra la gradevole timbrica del cantante (una sorta di Wetton meno dotato…), mentre quelle più movimentate si avvicinano al new-prog di stampo inglese grazie agli stereotipati assoli “circolari” di Moog.
In conclusione, un album con più pregi che difetti: non troppo avventuroso e a volte appena al di sopra di un’aurea mediocrità, ma suonato in modo impeccabile e disseminato di melodie accattivanti che possono certamente invogliare ad ascolti ripetuti… a voi – come sempre - l’ultima parola!

 

Mauro Ranchicchio

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