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FLOWER KINGS Paradox hotel Inside Out 2006 SVE

È peggio essere gli Yes alla ricerca di se stessi o essere Roine Stolt alla ricerca degli Yes? Se tutto fosse finito lì, una rispostina si potrebbe anche trovare. Il problema è che qui non si tratta solo, come accaduto in precedenti lavori, di clonare uno Yes-sound, qui si sfonda la porta a nuove e palesi investigazioni in campo King Crimson e soprattutto Gentle Giant.
Bene, si potrà dire. Stolt apre la strada a nuove idee. Vediamo in po’ …
Doppio CD, 19 brani, 2 ore e un quarto di musica, una suite di 20 minuti, tre brani intorno ai 10/12 minuti, un paio sui 3 minuti. Quello che più salta all’orecchio del primo ascolto è una forte eterogeneità generale. Praticamente subito, a parte un piccolo intro, la suite “Monster and the man”, che parte morbida e suadente, con sonorità piuttosto classiche per il gruppo. Pochi minuti e arriva il cantato in piena melodia Déjà Vu. Mediamente complesso lo sviluppo che, a differenza delle suite passate, mi pare slegata nelle tracce di raccordo tra un movimento e il successivo. Si passa con molta indifferenza da momenti vintage a momenti piuttosto moderni. Qualcosa di meno ritrito si sente, ma sono tanti i passaggi alla Yes con Wakeman. Nella parte centrale due momenti smaccatamente Gentle Giant. Decisamente blues e un po’ fuori luogo il primo assolo di chitarra, stirato su note lunghissime e mal risolto sul finale. Molto meglio il secondo in sapore di Andy Latimer. Finale rilassato di piano e un po’ jazz. Poco utili i tre minuti successivi appartenenti al brano “Jealousy”, giocati su piano e voce con una melodia povera. Piuttosto bello, nella dinamica, il successivo “Hit me with a hit” con molti cambi d’atmosfera e una middle section ricercata un po’ psichedelica e un po’ crimsoniana alla “The Talkin Drum”. Finale percussivo di marimba con la ripresa della melodia iniziale. Fiumi d’organo in puzza di “Close to the Edge” e inizia “Pioneers of Aviation”, reminiscenze di Jobson e UK, di IQ e new prog inglese, uno strumentale nettamente superiore a quanto sentito fino ad ora.
“Lucy had a dream”, torna il cantato uguale, uguale alle solite melodie. Qui è giocato su una tematica un po’ beatlesiana e la chitarra alla Harrison è d’obbligo. Nella seconda parte del brano un lungo assolo e un finale da parco di divertimenti che sfuma in “Bavarian Skies” brano floydiano nella forma, nella costruzione e nell’idea generale, che merita un bello skip sul lettore. Lenta e soffusa “Selfconsuming Fire”, chitarra acustica e brano alla Sting, il centrale assolo di chitarra e noia alla grande. Ancora Pink Floyd per la successiva “Mommy leave the light on”. Un brano spudoratamente The Wall, persino nel testo. Ultima traccia del primo CD, “End on a high note” ancora Close to the Edge in maniera così evidente e così impudente da meravigliare.
Cambia disco, ma assolutamente non la modalità: il brano “Minor Giant Steps” sembra la fotocopia del precedente, un poco meglio nella melodia e soprattutto nelle parti strumentali. Altro brano da skip senza appello è “Touch my heaven”, neppure il lungo assolo di chitarra, che prende tutta la seconda parte gilmouriana, potrà salvarlo. Altra pasta di pezzo è “Unorthodox dancinglesson” In bilico tra momenti zappiani e crimsoniani. Chitarra gentilmente funky e tempi dispari a rotazione. Un buon brano, per certi aspetti la cosa migliore del lavoro intero. I successivi pezzi sembrano alla ricerca di melodie facili e di sicura presa e devo dire che qualcosa di carino si sente anche, come il ritornello, il solo di tastiere e il finale di “Man of the world” o l’avvio con una buona ricerca ritmica di “Life will kill you”, che si rovina, però, brutalmente proseguendo con un cantato di dubbio gusto retrò. Dei due brani successivi il primo e la prima parte del secondo sono ancora l’immagine dell’inutilità.
Arriva la title track. Un funky rock che non somiglia in nulla a ciò che musicalmente mi piace. Me l’avessero proposta senza dirmi l’autore mi sarei buttato su qualche rocker americano di seconda fila. Il brano finale “Blue Planet” riprende le melodie della suite e i pochi momenti “buoni” nulla aggiungono e nulla modificano al lavoro di Stolt.
Mi chiedo che bisogno ci sia di arrivare ad una produzione così massiva per concepire cose così impersonali e trattate in maniera così impudente. Mi chiedo anche dove sia scritto che in un pezzo prog la fine debba riprendere il tema dell’inizio. Oddio, Paradox Hotel ascoltato un po’ di volte, può soddisfare, ma mi sembra poco, persino per il progster alla ricerca di certezze.
Finiamola lì. Mettiamo che per strada, in mezzo alla neve appena spazzata, troviate un bel biglietto da 50 €. Vi infilate nel primo negozio di dolciumi e il negoziante, rammaricato, vi dice che le tavolette di Willie Wonka sono terminate, però è rimasta sullo scaffale una copia dell’ultimo lavoro dei Flower Kings …beh, fate voi.

 

Roberto Vanali

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