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BROTHER APE On the other side Progress Records 2005 SVE

Una forte impronta dello zampino della Progress Records, rampante etichetta svedese, è impressa nella produzione del primo album dei Brother Ape, originalmente un EP uscito in sole 500 copie nel 2003 e venduto in occasione dei concerti: grazie all’aggiunta di tre nuovi brani la sua durata ora sfiora i 50 minuti ed è quindi da considerare un disco di lunghezza intera a tutti gli effetti.
La band di Stoccolma è una formazione quadrangolare con il cantante Peter Dahlström e Gunnar Maxén a dividersi i compiti per quanto riguarda basso e tastiere, il chitarrista Stefan Damicolas (voce solista in un paio di brani) e il batterista Max Bergman. Apprendiamo dal sito ufficiale che Dahlström ha lasciato amichevolmente i compagni dopo la pubblicazione dell’album, e che il resto del gruppo ha intenzione di proseguire come trio.
Un sound che definirei atipico per una band scandinava, dal sapore moderno ed eminentemente americano, caratterizzato da spiccate influenze pomp nei frangenti più movimentati (“I freak out”, “Clockworks”) e da una propensione a sonorità fusion che pervade quelli più rarefatti (evidente il parallelo tra “Railways” e la celeberrima “Last train home” di Pat Metheny e non solo per l’ispirazione ferroviaria!), con qualche sconfinamento nella solare terra degli Yes in occasione dei brani acustici (“Farewell song” e i suoi vocalizzi andersoniani vagamente esotici e “Lucky fool”) o nella title-track in chiusura, una mini-epic che sembra uscita dai solchi dell’album di ABWH.
Il risultato è certamente godibile, ma risulta davvero difficile trovare qualcosa di particolarmente innovativo o emozionante; a tratti, e specialmente nel brano di apertura “The jerk”, la miscela descritta mi porta a pensare agli americani Relayer - anche a causa della somiglianza tra la voce di Peter Dahlström e quella di John Sahagian – probabilmente la band che più si avvicina alla poetica dei Brother Ape, debitrice anche del flash-rock dei migliori Saga.
Peccato si avverta a più riprese la tendenza ad un alleggerimento della proposta, che rischia ripetutamente di sconfinare nel pop ma riesce quasi sempre a scamparla, magari grazie a nostalgici arpeggi di chitarra classica (“This hour”) o ad un debordante basso Rickenbacker ed un Hammond in fuga (“Unaccomplished”).
Un album non essenziale, che nonostante la provenienza nordeuropea trova una sua collocazione ideale tra le nuove band statunitensi nate alla fine dello scorso decennio; un esordio pieno di buone idee ma forse incapace di elevarsi al di sopra della media e privo di colpi di genio. In prospettiva, un gruppo da tenere d’occhio: ci auguriamo che con la prossima prova ci propongano un piatto dai sapori un più speziati.

 

Mauro Ranchicchio

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