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MOON SAFARI A doorway to Summer autoprod. 2005 SVE

L’esordio di questa band proveniente dal nord della Svezia era piuttosto atteso nell’ambiente, probabilmente per la presenza di Tomas Bodin, tastierista dei Flower Kings, nelle vesti di produttore o per i pareri entusiastici di chi ha avuto il piacere di ascoltarlo in anteprima.
Ad essere sincero devo ammettere che il primo ascolto dell’album mi ha lasciato un po’ deluso, forse perché la prospettiva di ascoltare una band scandinava di prog sinfonico i cui arrangiamenti si basano sull’uso intensivo di tastiere vintage (il flauto del Mellotron è praticamente ovunque) mi ha riportato alla memoria i gloriosi fasti dello scorso decennio, mentre con i Moon Safari siamo di fronte “semplicemente” ad una band dal gusto squisitamente retrò ma dalla scarsa attitudine verso la sperimentazione o l’innovazione.
Se al contrario ci si pone all’ascolto di questo album (dalla durata contenuta di 60 minuti, una scelta saggia) senza aspettative esagerate, è possibile godere di una proposta fresca, scorrevole e accattivante come poche, che nella scena odierna può occupare il ruolo interpretato negli anni ’90 dai già citati Flower Kings dei primissimi album, i migliori.
Brani piuttosto lunghi (sino ad arrivare ai 25 minuti di “We spin the world”) caratterizzati da grandi dosi di melodia, parti cantate corali (tutti i cinque membri della band prendono in mano il microfono…), rassicuranti interventi di Moog, chitarre prevalentemente acustiche e una generale atmosfera di serenità e rilassatezza: per una volta il cliché del brumoso inverno nordico non si applica affatto ed il titolo scelto è appropriato per una musica tanto carezzevole da sfiorare appena le orecchie dell’ascoltatore come una brezza estiva.
E’ forse superfluo in questi casi citare un brano piuttosto che un altro, la stessa suite è in realtà una canzone lunga con tanto di refrain solare e nostalgico e che aderisce perfettamente allo stile del resto dell’album; forse è proprio l’apertura di “Doorway” a restare maggiormente in testa grazie al feeling pastorale creato dalla chitarra acustica, dal piano e dall’armonica, non troppo distante dagli episodi più folk dei connazionali Ritual (Simon Says l’altro nome che può saltare in mente), mentre la maggiore esuberanza strumentale di “Dance across the Ocean” può rimandare ad alcuni momenti festosi dei Glass Hammer.
Se dovessimo cercare i padri spirituali dei Moon Safari, oltre a citare l’ovvia lezione degli Yes e dei Moody Blues, probabilmente li troveremmo proprio nella loro madrepatria: l’eredità di band come i primi Kaipa e soprattutto gli Atlas mi sembra essere stata recepita in modo evidente e fusa con elementi più moderni, facilitandone una fruizione non impegnativa. Mi sento di consigliare quest’album di delizioso soft-prog se non a tutti perlomeno a chi apprezza proposte di rock sinfonico senza porsi troppi problemi di originalità; tolgo la riserva per tutti i divoratori delle innumerevoli proposte di Stolt e compagni: qui troverete pare per i vostri denti, e forse converrete che gli allievi - pur senza strafare - spesso e volentieri superano gli oramai inariditi maestri.

 

Mauro Ranchicchio

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