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JAEN KIEF Las Hadas No Vuelan Más / 1. Vagas Nubes Musea 2006 COL

Dopo ben tredici anni di gestazione e quattro di presentazioni live e prove in studio, vede la luce la prima parte di quest’opera concettuale composta dal chitarrista Juan Carlos Cardozo ed eseguita con la sua band (Jaén Kief, nome nato dalla giustapposizione di una varietà di uva spagnola e del termine usato per la “siesta” nei paesi arabi…) di stanza a Medellín, nel sud della Colombia.
Il mistero del doppio titolo, infatti, si spiega con il fatto che questo “Vagas nubes” non è che il primo atto dell’opera di un’ora e mezza “Las hadas no vuelan mas”, concepita tra il 1990 e il 1998, di cui attendiamo fiduciosi la pubblicazione della seconda parte a breve scadenza. Nelle parole dello stesso compositore, la storia alla base delle liriche è una metafora della “perdita dell’innocenza, il diventare adulti “produttivi” ma insensibili, la contrapposizione tra l’apparire e l’essere, smettere di creare, di cercare, di cambiare e di pensare per il semplice piacere di farlo …”
La band è insolitamente numerosa, potendo vantare – accanto alla classica formazione chitarra/tastiere/basso/batteria - la presenza di due voci soliste (Sol Beatriz Jaramillo e Juan Gonzalo Tamayo), un flautista ed una sassofonista che garantiscono una buona ricchezza di soluzioni nell’arrangiamento dei brani.
Dopo un’introduzione recitata, risulta chiaro già dalle prime note della “Obertura” che l’attitudine dei nostri colombiani li porta a cercare soluzioni sul versante romantico del rock sinfonico, quello abitato dai Camel di “The Snow Goose” ovviamente, ma anche da numerose band sudamericane degli anni ’90 (come i brasiliani Sagrado, Dogma, Grandbell e Via Lumini).
Le influenze latine sono presenti in modo evidente solo nelle percussioni del brano di chiusura “Brujo negro” (nonostante la Colombia possa vantare tradizioni di musica folcloristica sia andina che caraibica…), è invece il gusto per la melodia cristallina ad accomunare i Jaén Kief ai loro predecessori, nonché l’esteso uso del flauto a dialogare con una chitarra elettrica dalle sonorità a volte vagamente floydiane (come nell’esteso solo che chiude “El juego de unas sombras”).
Le tastiere sono utilizzate con discrezione da Douglas Mejia con compiti più che altro di supporto e spesso con timbriche di archi, ad alimentare la dimensione sinfonica; raramente si ergono al ruolo solista ma quando ciò succede – come nel primo movimento della mini-suite “Duerme bien” – ci si rende conto dell’amalgama invidiabile raggiunta da una band che sarebbe in effetti impreciso definire esordiente; altrove la scelta di alcune sonorità artificiali finisce però per rovinare un po’ il risultato finale.
Il pezzo centrale del concept, la suite “Momento Gris” divisa in sette parti, riassume egregiamente le sonorità del gruppo, alternando momenti pastorali e chitarre dalla voce “cosmica” a passaggi più movimentati e grintosi (ma sinceramente meno convincenti, forse anche per le caratteristiche della voce maschile).
Al di là del giudizio complessivo, la band merita un plauso incondizionato per la perspicacia (le registrazioni sono state in parte finanziate “à la Marillion”, ossia tramite la prevendita dell’album), per aver deciso di sorreggere la scomoda e poco remunerativa fiaccola del rock progressivo in un paese la cui tradizione in tal senso è un po’ avara ed infine per aver creato un album senza pretese di innovazione ma che rivela appieno la classe dei musicisti coinvolti. Raccomandato agli amanti del prog sudamericano moderno, consigliato un ascolto a tutti gli altri.

 

Mauro Ranchicchio

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