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PICTORIAL WAND A sleeper’s awakening Unicorn Records 2006 NOR

Lo so, non me ne vogliate troppo: è un’ovvia e scontata semplificazione, ma come potrei esimermi dal definire il progetto Pictorial Wand come la risposta norvegese ad Ayreon? Esordio discografico doppio all’insegna della grandeur per il chitarrista/tastierista Matis Sörum, musicista e compositore dalla preparazione classica (diplomato al Conservatorio di Trondheim) e dall’ispirazione tendente ad un’epica magniloquenza, che teneva in cantiere questo progetto dal lontano 2003 circondandosi via via di collaboratori “stipendiati” e assoldati appositamente per la registrazione dell’album.
Personalmente, sfogliando il ricco booklet (che però nonostante le 24 pagine non contempla le liriche…) sono rimasto un po’ perplesso constatando di avere a che fare con l’ennesimo concept di natura fantasy/metaforica, e le mie riserve sono cresciute scoprendo un plot basato sull’espiazione dei sette peccati capitali (ma non l’ha già fatto qualcuno? Magenta?): mai giudicare un libro dalla copertina, però ed infatti l’opera magna del nostro Matis è sicuramente da includere nel novero dei debutti degni di nota.
Cinque vocalist, due tastieristi, un bassista, un batterista, due violoncellisti, due flautiste: Sörum alla totalità delle chitarre, organo, altri synth e sitar elettrico; una strumentazione così corposa è messa al servizio di un progressive che a volte si tiene in equilibrio sulla corda sottile che separa il genere dal metal epico ma più spesso (e fortunatamente) su coordinate sinfonico-pastorali, dai risvolti spesso orchestrali che sarebbero perfettamente calzanti come colonna sonora di un colossal hollywoodiano.
Dopo il prologo, con tanto di voce narrante (che ci racconta dell’ennesimo regno al di là dei confini esplorati dominato dall’ennesimo tiranno e popolato da sudditi sottomessi… ok, meglio soprassedere), il primo vero brano “The king and his land” per l’appunto, con i suoi oscuri passaggi sinfonici (un’orchestra sintetizzata ci accompagna per gran parte dell’album), una chitarra robusta al punto giusto ed un refrain orecchiabilissimo, scopre le carte e rivela le intenzioni di Matis: trovare un giusto equilibrio per accontentare chi identifica il prog con le band proliferate sulla scia dei Dream Theater (specie in nord-Europa: vedi Pain of Salvation, Nightwish, etc.) senza scontentare troppo i nostalgici ed i puristi del sinfonico.
Proseguendo l’ascolto del primo CD - in effetti - questa impressione non viene affatto smentita, anche se l’impiego di un nutrito cast di vocalist (anche nel corso dello stesso brano, come in “The gate of the lost souls”) gioca a favore dei nostri e porta alla mente i progetti di Nolan e Wakeman, pur con una dose di vitamine extra ed influenze new-prog quasi assenti.
Non è possibile distinguere brani lenti ed up-tempo, dato che ciascun pezzo si rivela mutevole, ma è soprattutto in brani di lunga durata come l’atmosferica e floydiana “In shadow”, infarcita di assoli di synth e chitarra che le capacità del nostro Sörum si rivelano appieno e ci liberano finalmente dai pregiudizi iniziali. Detto questo, sarebbe quasi impossibile non rilevare qualche lungaggine di troppo in un album della durata di quasi due ore, soprattutto quando la formula viene applicata ad oltranza: non basta l’inatteso growling di Stian Leknes in “The beast within” ad aggiungere sale alla zuppa, e viene da chiedersi per l’ennesima volta se l’opera non avrebbe forse giovato di una presentazione su singolo CD.
L’apertura del secondo capitolo è in tono melodico ed acustico, affidata all’accattivante “Retrospective visions”, ma già dalla successiva “Red sunset and a drowning fly” (introdotta da un’inusuale dialogo piano/marimba un po’ alla Oldfield di Incantations…) si torna all’alternanza tra le parti melliflue e gli scossoni elettrici: tutto ben fatto ma tutto altrettanto prolisso: interludi cello/flauto e voci femminili in brani sempre dalla durata sempre a ridosso dei dieci minuti.
Non fraintendetemi: è un ascolto piacevolissimo e reso ancor più scorrevole dal ripetersi di melodie già ascoltate nel “primo atto”, come richiede il manuale del perfetto concept-album, ma le proporzioni torrenziali tendono a sminuire un po’ la fruizione dei singoli brani; così la splendida chitarra in glissando in “The golden path” o il pregevole dialogo flauto/sitar in “A warning not heard” potrebbero passare ormai inosservati dopo un’ora abbondante di sinfonismi senza tregua, e ciò sarebbe veramente un peccato.
Inutile dilungarsi ancora sulla descrizione dei singoli brani: ciò che segue è esattamente “more of the same”, ma il problema è che il tutto è maledettamente (e un po’ ruffianamente) attraente, tanto da spingere il povero recensore a rimangiarsi qualche parola cattiva di troppo: sarebbe veramente ingiusto lesinare elogi per un’opera prima che sfiora la perfezione sonora con arrangiamenti che ridefiniscono letteralmente l’aggettivo “lussureggiante”… il mio unico augurio è che in futuro il nostro Matis (che merita comunque i nostri complimenti) impari il sempreverde motto “less is more” e si affranchi un po’ dalla recente tendenza (vedi gli ultimi parti di Arjen Lucassen ed Erik Norlander) di voler stupire a tutti i costi con produzioni grandguignol a scapito della varietà e della pazienza dell’ascoltatore!

 

Mauro Ranchicchio

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