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IMAGIN'ARIA |
Progetto T.I.'A. |
Ma.Ra.Cash Records |
2006 |
ITA |
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Ci sono voluti diversi ascolti per riuscire a capire che disco avevo di fronte. E, sinceramente, non so neppure spiegare quale sia stata la maggiore difficoltà interpretativa. Siamo all’ascolto di un disco di chiaro fascino, fatto di belle canzoni ben suonate e ben interpretate. Un moderno disco italiano ispirato e di concetto. Quello che ho faticato a trovare è, forse, il prog. Non perché non ce ne sia, in questo lavoro. Ma semplicemente perché cercavo nel posto sbagliato.
Il chitarrista del gruppo G. Luca Milan, ha scritto un racconto. Una storia di fantascienza tetra ed avvincente sulla fine e del genere umano sulla terra e la sua rinascita su un altro pianeta. I testi e le musiche ruotano attorno a questo concept dove i risvolti introspettivi sono molti.
Oltre un’ora suddivisa in dodici brani dai tre agli otto minuti, con due chitarre, che memori di un passato non troppo remoto, talvolta sbottano in temi hard dai ritmi sostenuti, come nell’avvio de “Il Grande Piano” o nell’intera “Nel Nero”.
Quindi parti di hard rock certo, ma anche momenti di musica più rarefatta e intimistica, momenti di grande apertura sonora, fatta di tappeti ritmici e chitarre fluide. Musicalmente c’è molta personalità, ma sarà di sicuro orgoglio per la band, sentire parlare di debiti sonori ai gruppi come i Rush, Kansas e Shadow Gallery, tra gli americani, Pink Floyd, Eloy e Queen tra gli europei, Banco e Devil Doll tra gli italiani.
La parca presenza delle tastiere, come detto, è compensata dall’utilizzo di due chitarre, ma la compensazione maggiore la si deve alla notevole voce di Daniele Perico, potente, espressivo ed elastico. Questa compensazione è un aspetto molto importante e di diversa lettura, perché se da un lato inserisce sonorità e timbriche tipiche del rock italico di ultima generazione è anche vero che le scelte melodiche accattivanti sminuiscono, in parte, lo spettro di divagazioni prog. Il riassunto è che comunque con una canzone come “Tela Bianca” gruppi italiani di successo (mi vengono in mente Le Vibrazioni) farebbero soldi a palate. Ovviamente se – e come deve essere – il lavoro lo si prende per quello che è e quindi un concept da ascoltare di filato, il discorso e i suoi accenti saranno spostati di conseguenza.
Che devo dirvi? dopo vari ascolti il lavoro si apre in tutto il suo fascino e l’overture con “S.O. Seji” e la parte centrale dell’opera, nei brani “Fusione”, “Il grande piano” e “Il peso della materia” rappresentano bei momenti musicali, con un impatto e una varietà sonora di fantasia e spessore. Talvolta fa capolino un pianoforte come ne “Il nostro dolore” ed è un bell’esercizio e un bell’ascoltare, seppur in un brano che talvolta sterza verso sonorità AOR un po’ più scontate. Nel complesso del disco scade solo su un brano: il penultimo “Il popolo dell’acqua”. Non che sia inferiore agli altri, anzi musicalmente e nelle parti strumentali è forse anche meglio, ma c’è qualcosa nel cantato e soprattutto nelle seconde voci (terribili nel ritornello) che non riesco a digerire. Il disco mi è piaciuto e, non solo per questo, consiglio il suo acquisto senza remore.
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Roberto Vanali
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