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A un anno dal graziosissimo esordio che ci aveva piacevolmente sorpreso, il tastierista Antony Kalugin ci regala un nuovo album. Rimane immutata la formazione di base e ancora una volta numerosi ospiti sono stati chiamati a completare il progetto: se ne contano otto che si dividono fra chitarre, basso, lira ucraina e bayan. L'oscura copertina, che questa volta ritrae un paesaggio invernale che si stende sotto un cielo plumbeo, con una prospettiva che sembra dare un'idea di lontananza e solitudine, lascia trasparire la grande vena descrittiva e paesaggistica della musica. Una musica che sembra liberarsi nei grandi spazi, fino a riempirne delicatamente l'atmosfera, proprio come farebbe lenta e silenziosa una nevicata, che questa volta offre suggestioni inquietanti e dolorose, oltre che romantiche e meditative. "Masks and Illusions", per fare un esempio, sembra quasi ambientarsi nel paesaggio della copertina, con i suoi suoni tetri, i vocalizzi angoscianti, il vago sospirare del vento che si percepisce all'inizio, in un'atmosfera che fa quasi rabbrividire, ed i suoi ricami di lira e flauto, dal sapore mediorientale. Rimane immutato il grande ruolo delle tastiere, onnipresenti, dai suoni fluidi e brillanti, dal potere narrativo suggestivo, con la loro scelta cromatica di registri particolare ed elegante. Bisogna però sottolineare che questo nuovo lavoro presenta una maggiore ecletticità e variazioni musicali più articolate rispetto al pur ottimo esordio. Non aspettatevi comunque chissà quali guizzi strumentali: le composizioni sono rarefatte ed avvolgenti, tratteggiate in maniera morbida e sfumata e si sviluppano con fluidità e pacatezza. Vi sono maggiori rifiniture e un ruolo della batteria più dinamico, con l'aggiunta a volte di percussioni tradizionali, anche se la timbrica di questa, asciutta e dal sapore sintetico, rimane forse il punto più debole dell'insieme sonoro complessivo. Non mancano momenti più sognanti, come "Temple of Light", una traccia dal sapore fresco e incantato, con bellissimi riferimenti agli Happy The Man. Bellissimi i ritagli di pianoforte, ora dal sapore contemporaneo, come in "The Dream Master", una visione alla Debussy, ora dal sapore jazzy. Nel complesso l'album è composto da una serie di tracce brevi, sedici in tutto, sospese fra musica sinfonica, accenni folkloristici impercettibili ma preziosi come i fili d'oro intessuti nel broccato (semplicemente meravigliosa sotto questo punto di vista "Wonder Valleys"), elettronica sofisticata e fusion garbata. Consentitemi di dire che questo nuovo lavoro supera addirittura il precedente per idee, ricchezza di suoni, per le trame sonore narrative più vivaci, rappresentando quindi uno sviluppo e un compimento di quanto già proposto.
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