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MASSIMILIANO MEDDI Daedalus autoprod. 2007 ITA

In accordo col suo iter non solo musicale ma più globalmente umano e spirituale, Meddi procede imperterrito lungo l’accidentato percorso semisolitario che s’è da tempo scelto. Uniche eccezioni, come nel precedente “Aglaofeme”, sono sempre due entità: la sua Musa ispiratrice Maria Caruso, compagna di vita, ma soprattutto, a sovrintendere con forza l’intero progetto, l’azione salvifica di Dio. Il concept “Daedalus” nasce dunque dal mito greco, si sviluppa attraverso l’omonimo romanzo di Joyce, per trovare infine compostezza in quel “Signore che vince la morte con la mansuetudine di un agnello”.
Che “Daedalus” non possa essere ascoltato con disattenzione lo dice il sottotitolo, anche qui tutto un programma: itinerario fono-sintonico sulle accessibili trans-formazioni, in tema di “agito co-autobiografico” per voci miste, orchestra, organici strumentali moderni e sezione ritmica. Ancora un’opera d’avanguardia, quindi, però non astrusa o inintelligibile, com’è del resto nelle corde del Meddi più recente, che bilancia con cognizione di causa gli estremismi da Rock In Opposition e gli afflati più classicheggianti. Infatti in “Una prece: labii me nèuri” troviamo echi di contemporanea religiosità fusi con la polifonia rinascimentale; sui cantati lirici della Caruso e dello stesso Meddi vanno a svilupparsi oblique orchestrazioni. L’imprevedibilità delle soluzioni arrangiative si coglie poi ne “Il promontorio di Olmia”, dove una planante apertura col mellotron prelude a un poderoso intervento ritmico; le cosmiche rilassatezze emergono pure nella convincente “Daedalus airplane”. Denota intelligenza la successione degli eventi musicali, perché in “Fillotassi” si prosegue a sviscerare l’ambito kraut; cambio totale di registro con “Nel collegio di Clongowes Wood”: curioso l’accostamento di armonica e chitarra psichedelica; si rientra, in parte, in ambito teutonico con “Matemàulica”, azzeccato connubio di roboticità kraftwerkiana e fisicità latina. Altro vertice assoluto è l’ipnotica “Albedine”: profumano di Enya le vocals stratificate, e difatti qui si tende all’ambient, anche se molto sui generis. Predominano invece gli accenti epici nei due pezzi conclusivi, e “Haptic in exit” è rivestita di solennità, mentre l’“Inno di resurrezione” si dispiega alto e significativo, sempre con melodie assolutamente particolari.
Detto dell’incisione, al solito molto buona, non resta che rimarcare l’originalità della proposta, davvero indefinibile: per fortuna è così, e l’ascolto senza pregiudizi dell’ineffabile sperimentalismo meddiano non può deludere.

 

Francesco Fabbri

Collegamenti ad altre recensioni

MASSIMILIANO MEDDI Nekton 1997 
MASSIMILIANO MEDDI Aglaofeme 2006 

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