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SETI Discoveries Mylodon Records 2010 CHI

SETI è un sistema realizzato per captare segnali radio provenienti da lontane galassie alla ricerca di forme di vita aliene. Affascinato da questo progetto di ricerca, il multi strumentista Claudio Momberg (tastiere, chitarra, basso, backing vocals), che ricordiamo anche nella line-up dei Subterra assieme al batterista Eduardo Cuesta, ha dato vita a questa entità musicale che si avvale della collaborazione di musicisti abbastanza noti della scena Prog cilena (e non). I Seti sono giunti con questo nuovo album al loro secondo capitolo, dopo il debutto “Life Signs” del 2005. La loro attuale formazione viene completata da Jaime Scalpello (Entrance), che divide il suo ruolo di cantante solista con l’ospite Damian Wilson (Threshold, Headspace), José Luis Ramos (Fugazi, una tribute-band) al basso e da una serie di chitarristi che si alternano nelle varie tracce: Alvaro Graves (Angulart), Aly Romero (Toccata), Javier Sepúlveda (Jaime Rosas Cuarteto), Leonardo Basso e Pablo Collarte. Non vi spaventate per la presenza di tante chitarre, il sound è tutt’altro che chitarristico e la composizione dei brani è tutta ad opera del leader Momberg che ha saputo smussare sapientemente ogni spigolo. In linea con il nome del progetto, che rimanda ai misteri dello spazio, i temi astrali, sviluppati grazie alle tastiere, sono ben rappresentati. Questi si mescolano, il più delle volte, con un prog melodico e romantico molto arioso, ma in altre occasioni finiscono col prendere decisamente il sopravvento, come in “Underground”, una composizione di nove minuti basata interamente su divagazioni elettroniche cosmiche. La traccia di apertura, “A Draconian Tale”, è fra le più romantiche, con un cantato molto sentimentale, che mi ricorda vagamente quello di John Carson in “Songs From the Lion’s Cage” degli Arena, e con un sound complessivo che rimanda in parte alla stessa band. Al punto giusto la muraglia di chitarre viene sfruttata a dovere per appesantire il sound e renderlo più drammatico e turbolento, ma si tratta comunque di momenti collocati ad arte per rendere le composizioni più variegate. E’ curioso come un gruppo formato da tanti personaggi della scena cilena non riesca a ricordare nessuna di queste band in particolare, offrendo un prodotto ben levigato e molto più affine alla scena britannica che sudamericana. A fare la differenza sono a mio giudizio le incursioni tastieristiche, con un ampio uso del MiniMoog e del Mellotron, usate in maniera assai varia, sia per dare enfasi al sound, sia per arricchirlo con molte volute. Bellissima è per esempio la lunga sequenza di Moog di “Ellipse”, un brano abbastanza potente ma incredibilmente evocativo, con una bella alternanza fra parti concitate e momenti lirici di sosta e vari riferimenti ai Porcupine Tree ma anche ai Threshold nei momenti più cupi (grazie anche alla voce di Wilson che interpreta questo pezzo). Le tastiere hanno nella porzione centrale di “The Inner Outside”, il lungo brano centrale di quasi 14 minuti, un andamento quasi marziale che può vagamente ricordare i Solaris ma tutto viene sempre a diluirsi lungo sentieri votati alla melodia romantica e viene sempre fatta molta attenzione affinché non si vengano mai a rompere i momenti di tensione con sferzate troppo esagerate, mantenendo il mood del pezzo sempre su livelli pacati e misurati. Fra i momenti più romantici troviamo anche la Floydiana “Uruqhart Castle”, che si fregia di un lungo assolo strappalacrime di chitarra che scorre su una soffice base di Mellotron, con una performance vocale decisamente sentimentale, e lo strumentale “Falling Leaves” per piano e synth. Posso affermare alla fine dei conti che questo album risulta abbastanza interessante ed ipoteticamente appetibile per i cultori del prog romantico che potranno trovare, accanto a soluzioni ben sperimentate, vari elementi musicali che aiutano a mantenere il sound sempre abbastanza fresco e movimentato.



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Jessica Attene

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