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YETI RAIN III Crimsonic Label 2010 CAN

Tento sempre di non dare troppo peso alle impressioni del primo ascolto di ogni disco. Per questo lavoro è stato naturale e spontaneo un tentativo di allontanamento, quasi potessi subire un ché di negativo e sinistro dal suo ascolto. Dovendone parlare in questa recensione ho superato la brutta sensazione iniziale e, seppur forzatamente, sono andato avanti con successivi e ripetuti ascolti. C’è stato un momento nel quale ho avuto la consapevolezza di aver inteso il suo scopo, da lì c’è stata una sorta di trasformazione e le strane e anomale sfaccettature della musicalità di Kopecky, hanno trovato un loro posto nell’infinito puzzle dell’avanguardia più sperimentale.
William Kopecky, quindi, che qui è al terzo episodio di Yeti Rain, ma che possiamo ricordare anche nelle intense e complesse atmosfere dei Far Corner o in quelle grondanti dei Parallel Minds o nelle misture sinfonico metal della band con i fratelli, Kopecky, appunto.
Il disco tenta un rinnovo rispetto ai due precedenti e, in parte grazie alla novità data dall’apporto ritmico del batterista e percussionista Craig Walkner e in parte a quello poderoso e stranito del sassofonista Robert Ebner, ci riesce. Ci riesce, pur mantenendo intatta quella forza sovversiva e free a cui tipicamente fa riferimento, incrementandola di inquietante e palpabile tensione.
Il trio genera una musica che sembra volersi muovere tra i meandri lutulenti di un fiume abissale, abitato da infernali creature che non vedono e non pensano e che istintivamente si muovono, mangiano, cercano consimili per riprodursi, vivono quel che c’è da vivere, si contorcono e muoiono, senza dare nulla al mondo, senza che la loro presenza sia neppure avvertita e senza la consapevolezza di quanto e cosa sia il resto del mondo. Nel buio si accendono poche e fioche luci, sono attimi che rischiarano le lunghe e cupe note elettroniche del basso di Kopecky, che arrossano di intermittenza i contorti corridoi mentali creati dal sax filtrato e psichedelico e dai synth di Ebner, ben più indirizzato verso forme di free jazz, piuttosto che verso un seppur scomposto indirizzo progressivo. Nulla di salvifico corre nelle secche, ipnotiche e determinate ritmiche di Walkner e a nulla servono, per alleviare lo stato di diffusa malattia onirica, gli inserimenti vocali, femminile nel finale di “The Meeting” e dello stesso Copecky in “The Sky Sickened”: voci che sembrano provenire dallo spazio, chimere inflessibili e portatrici di claustrofobica ansia e mistero. Descriverei il citato brano “The Meeting” come una strana unione tra la Waiting Room genesisiana e certi sperimentalismi psichedelici floydiani, con droni che si materializzano e in un lampo svaniscono, strisciando tra spazi ancora angusti, desolati, e dalle pareti scrostate, dove permangono evidenti segni delle unghie dei folli che le hanno abitate. Sicuramente da citare anche l’opener “Planets” che si muove tirando in ballo vari sperimentalismi vagamente collocabili tra King Crimson, Tangle Edge e la “macchina infernale” di Jannick Top.
Se ottenere con calibrata perfezione ciò che ci si è prefissi, è sintomo di un lavoro riuscito, ebbene, questo è perfettamente riuscito e se avete un po’ di coraggio e un po’ di insanità mentale nel tentare di affrontarlo, vi garantisco ampia soddisfazione.



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Roberto Vanali

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