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PÄR LINDH PROJECT Time mirror Crimsonic Label 2011 SVE

Il primo ascolto di questo disco è passato così liscio da non lasciarmi nulla, esattamente come se non lo avessi ascoltato. Il secondo passaggio mi ha dato l’idea di un disco becero, poppettaro e dalla dubbia utilità. Poi, con gli ascolti successivi, hanno iniziato ad arrivare alcune certezze e alcune conferme. Non è cosa di poco conto. La prima conferma è quella di essere di fronte ad un tastierista decisamente preparato e di livello tecnico eccelso. Certamente, oltre alla tecnica, Pär Lindh, dispone di mezzi notevoli e comunque adatti ad un’ottima produzione e, certamente, ha anche saputo circondarsi di professionisti di rilievo. In effetti per questo suo quarto disco di studio, in una pur lunga carriera, e dopo quasi dieci anni dal precedente, i collaboratori sono ridotti al lumicino. Troviamo, innanzi tutto, il poderoso e fantasioso bassista William Kopecky, che ormai spazia tra sinfonico, RIO, elettronica, avanguardia e chi più ne ha, ne metta. Poi c’è Al Lewis, cantante e percussionista, che troviamo nell’ultima formazione degli americani Starcastle, qui canta in tre brani (il quarto è strumentale) e suona la batteria nella terza traccia. Poi ci sono altri due batteristi (uno per traccia) e infine una tromba e un violino per qualche breve inserto qui e là. Nel secondo brano la batteria se la suona lo stesso Pär Lindh.
Se è tutto chiaro, passiamo a vedere cosa contengono le tracce.
Tanto, tantissimo prog sinfonico, muri immensi di tastiere, tappeti infiniti, scorribande e assolo di grande tecnica, un po’ di freddezza tipica dei dischi prevalentemente improntati sul virtuosismo, tanta passione e, su tutto, un fortissimo sapore déjà-vù.
Soprattutto nelle porzioni cantate la tendenza sonora è quella un po’ easy di certo AOR con tendenze hard. Non sono rari i momenti kitsch alla Emerson/Wakeman, tra l’altro supportati da ritmi decisi e rockeggianti. Buone, decisamente buone le esecuzioni, che però perdono forza perché troppo sentite e risentite. Per nulla celata è la tendenza alla magniloquenza e alla pomposità epica, con tastiere usate più spesso come muro sonoro piuttosto che come tocco lirico. Saltano fuori anche momenti che ribattono il tasto su alcune cose emersoniane dei ’70, decisamente fuori luogo o per essere benevoli semplicemente inutili, i cui elementi peculiari riescono a piazzare solo in quella fascia di transizione e di ignavia, poco prog per alcuni e poco rock per gli altri.
Ovviamente non mancano momenti di più alto spessore, con buone variazioni di aperta tendenza prog sinfonica, ne troviamo diversi nella lunga suite title track, inframmezzati però ad altri più “particolari” come un solo di tromba spagnoleggiante che preso slegato dal contesto farebbe dubitare della provenienza progressiva dell’autore o altri sbotti in stile emersoniano-ragtime, sparsi in vari punti del lavoro e nell’intera prima parte di “Waltz Street”.
Credo però che l’aspetto più negativo del disco sia la scelta ritmica, sempre troppo decisa e martellante, snaturando l’aspetto progressivo a vantaggio di una maggiore facilità d’ascolto. Con tutto questo non voglio affossare il disco, che alla fine risulta piacevolissimo e si fa persino ricercare per qualche riascolto estemporaneo, ma preme sottolineare che con scelte diverse e seguendo la sua natura progressiva ne sarebbe uscito un gran disco, visto il calderone di cose messe in ballo. Valga come esempio la traccia di chiusura “Sky Door” che con altre scelte ritmiche avrebbe avuto grande potenzialità, ma che il suo ritmo secco e il suo tema arioso ne fanno semplicemente un lungo brano rockeggiante e dai risvolti quasi pop, del quale però si salva la bella sezione centrale dove Kopecky presenta un assolo molto tecnico e interessante in ambiente space rock. Per varietà e fantasia le parti migliori del disco le troviamo quindi nella title track, nella seconda parte della citata “Waltz Street” e nella lunga “With Death Unreconciled” pur con un assolo di synth un po’ troppo Nocenzi, ma dove anche la parte cantata ha piani di movimento molto gustosi. Concludendo Pär Lindh dimostra di aver imparato bene la lezione del passato, ma di essersi ancorato a schemi ormai ampiamente sfruttati, talvolta troppo misurati e talvolta, all’opposto, senza senso della misura e che muoiono prima di arrivare alla fine dell’idea che li ha generati.
Ribadisco la notevole piacevolezza degli scenari offerti dal disco e, al contempo, un centro non troppo perfetto, facendoci assaporare qualcosa che avrebbe potuto essere anche meglio.


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Roberto Vanali

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