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THE NERVE INSTITUTE Architects of flesh-density AltrOck Productions 2011 USA

La nostrana AltrOck, etichetta specializzata in avant-jazz, Rock In Opposition e musica comunque di ricerca, pubblica questa one-man band americana, dietro il cui inquietante monicker si cela il giovane e (parecchio) bravo polistrumentista Mike Judge. Classe 1987, il nostro aveva già pubblicato l’anno scorso un album intitolato “Ficciones” sotto il nome di Sinthome, ma già in passato si era reso protagonista di altri progetti simili, chiamati di volta in volta The Wolf Tickets o Jerusalem.
Nello sfondo nero di “Architects…” risaltano i gelidi abbozzi di parti anatomiche umane, a sottolineare la “chirurgicità” che permea l’intero lavoro. Un approccio che potrebbe anche apparire freddo, comunque fortemente voluto da Judge, il quale sembra ostentare una personalità beffarda simile a quella del maestro Frank Zappa, dal quale mutua diversi elementi. A voler descrivere quanto proposto, si potrebbe facilmente cavarsi d’impaccio parlando di RIO, dicendo così tutto e niente. In realtà, questa musica dissonante col passare degli ascolti si dimostra molto colta, piena di contenuti e di elementi di studio, denotando per forza di cose una base solida nel mondo del jazz-rock sperimentale. Ecco, quindi, che i nomi a cui fare riferimento diventano i King Crimson più duri e gli Area meno politicizzati, senza dimenticare i Return to Forever dell’epoca in cui vi suonava Billy Connors. Qualcuno parla anche di John McLaughlin e della Mahavisnu Orcherstra. Forse. Del resto, in questo tipo di situazione, ci può stare dentro di tutto. Questi ultimi nomi, comunque, in sede di intervista sono citati come riferimenti dallo stesso Judge.
La peculiarità dell’album è che ogni brano presenta dietro l’angolo delle sorprese, non rimane mai uguale a sé stesso, pur mantenendo sempre una sorta di calma alienata di fondo. Probabilmente, l’inquietudine che traspare dall’intero lavoro è dovuta proprio a questo. Inoltre, sembra che il talentuoso musicista si diverta a creare delle brusche interruzioni là dove l’ascoltatore si aspetterebbe ben altre soluzioni oppure dei secchi stacchi per produrre poi delle acrobazie strumentali. A livello chitarristico Mike mostra una preparazione di altissimo livello, suonando sia l’acustica che l’elettrica, doppiandole, filtrandole ed adattandole al linguaggio musicale che lui stabilisce al momento. Non è dato sapere se basso e batteria sono per lo più programmati, ma se così fosse, si tratterebbe di un lavoro maniacale. Imprescindibile poi il lavoro delle tastiere, come si dimostrano sempre azzeccate le scelte di introdurre l’uso del sax tenore quando meno ci se l’aspetta. Una voce apparentemente “normale”, che conferisce un forte distacco emotivo da tutto il contesto, completa un quadro davvero complesso.
L’iniziale “Horror Vacui” è un po’ l’intero paradigma di quanto detto fino ad ora. Un brano quieto, che con i suoi controtempi dissonanti sembra celare una strana tensione sotto l’epidermide, pronta ad esplodere, e quando tutto sembra finito ci si lascia andare ad una lunga coda strumentale.
“Prussian Blue Persuasion” risulta uno dei brani migliori, la cui apertura sembra costruita su dei contrappunti estrapolati da “Cat Food” dei ‘Crimson, ma che poi si sviluppa su delle soluzioni chitarristiche quasi stile Allan Holdsworth (maggiormente comunicative, a dire il vero…) ed un uso anomalo addirittura di banjo e mandolino, conferendo ad una base di complessa avanguardia un flavour tzigano. Elemento che, dopo un intermezzo di organo distorto, torna più prepotente che mai, per un finale da rimanere col fiato sospeso, tra stacchi ed accelerazioni.
“Tooth & Flea Korowód” inizia con una fase cantata (una sorta di Heaven’s Cry sognanti), per evolversi in una lunga parte strumentale in cui la fa da padrone un chitarrismo quieto che deve parecchio allo stile zappiano più “liquido”, concludendo con una breve sfuriata nervosa e poi di nuovo con la solita calma apparente.
“Die neue moritat” è un breve esempio di rumorismo intramezzato da una interessante bossa nova, seguito da un altro dei momenti topici, “La jalousie”, in cui Frank Zappa incontra gli Area (senza le invenzioni vocali di Demetrio Stratos, qui sostituite da dei versi sussurrati in francese). Notevole il lavoro delle chitarre, che si doppiano, fanno botta e risposta, lasciano spazio a solismi jazz-rock stavolta di chiara scuola seventies e poi si scontrano per concludere con una base di basso, stile Rick Laird.
I riferimenti a Zappa persistono su “Hadassah Esther Cruciform”, dove gli spunti di matrice jazz hanno ormai preso il sopravvento.
La finale “ Bande magnétique… at the Ossuary” si apre con delle campane, confermando poi le scelte intraprese da Juice negli ultimi brani. Dodici minuti in cui ad un dato momento vengono in mente le fasi più fusion contenute nel bell’album “Fission” del tastierista svedese Jens Johansson, dove suonavano due chitarristi del calibro di Shawn Lane (rip) e Mike Stern.
Conclusione: un album che molto difficilmente, all’inizio, potrà essere fruito per intero. Ma dopo un paio d’ascolti, ci si renderà conto d’avere tra le mani sicuramente una delle migliori uscite di questo promettente 2011. Già da adesso, quindi, attendiamo il prossimo colpo del genialoide Mike Juice. Vedremo cosa sarà in grado di riservarci, sperando che la sua vena creativa non si esaurisca tanto presto e che sia capace di proporsi seguendo sempre nuovi schemi.



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Michele Merenda

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