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SLIVOVITZ Bani ahead Moonjune Records 2011 ITA

Tornano dopo due anni i napoletani Slivovitz, avendo già destato ottime impressioni col precedente “Hubris”. Un passo, quello del terzo album, spesso fondamentale per ciò che sarà la carriera di un gruppo, dove viene o meno consolidato un determinato stile. Il genere, specifichiamolo fin dall’inizio, consiste sempre in quella ricerca musicale costante che fonde tra loro la tradizione mediterranea con quella balcanica (come il nome stesso impone: si tratta infatti di un’acquavite fatta con le prugne, molto usata nei paesi della ex Jugoslavia). Una propensione anche stavolta dai profondi contenuti jazzistici, tendente ad un RIO piuttosto evoluto e mai fine a sé stesso.
Bisogna registrare l’ingresso del nuovo drummer Salvatore Rainone e la dipartita della cantante Ludovica Manzo, che inseriva bene i propri vocalizzi nelle trame strumentali. Al suo posto il trombettista Circo Riccardi, che affiancandosi al sassofono di Santangelo rafforza quindi gli “ottoni”. Una scelta che a tratti sembra voler insistere su quegli spunti da cool jazz che potrebbero avvicinare la proposta a delle varianti di Miles Davis.
Se tutti i pezzi fossero stati come le iniziali “Egiziaca” e “Cleopatra Through”, avremmo urlato al capolavoro assoluto. Il primo si apre con dei fiati che ricordano tantissimo la presentazione dei filmati cinematografici di un tempo, preludio ad un ottimo sviluppo che vede sugli scudi l’armonica di Derek Di Peri. Il secondo, invece, è quel particolare stadio in cui il jazz-rock e la fusion si incontrano magistralmente: ottima linea di basso del fondamentale Domenico Angarano, il violino di Riccardo Villari che deve parecchio al Simon House degli High Tide più controllati, controtempi ritmici e, soprattutto, un grande senso di magia esotica ricreato dai fiati sia nella fase di impostazione che in quella solista.
Con questo non si vuole assolutamente dire che i restanti brani siano semplice riempitivo, tutt’altro. Si tratta di composizioni ed esecuzioni eccellenti, che stanno a dimostrare il grande valore dei titoli sopra citati. “Fat” e “Veliero” suonano decisamente più calme, dando ampio spazio agli strumenti a fiato (armonica compresa). “02.09” sembrerebbe seguire la medesima falsariga, ma ben presto subentra un ritmica nuovamente dura, dove la chitarra di Marcello Giannini duetta con la brass-section, lasciando poi che la tromba di Riccardi si destreggi agilmente in un percorso in realtà parecchio tortuoso.
La quiete di “Opus Focus” lascia subito il posto alla danza tzigana della title-track, che tra sax, tromba e pregevoli assoli di chitarra fa emergere nel suo culmine delle tendenze crimsoniane. Chiude i battenti “Pocho”, un piacevole atterraggio che comunque non si attua così tranquillamente come si potrebbe pensare all’inizio. E forse il bello è proprio questo.
Album interamente strumentale, che forse non è pervaso da quelle suggestioni del secondo sforzo di un paio d’anni fa (si sente la mancanza della Manzo), ma comunque un’ottima conferma da parte di un gruppo preparatissimo ed originale. Gli Slivovitz sembrano non riuscire a rimanere fermi, pare abbiano bisogno di stare sempre in moto, mai quieti; in quella suggestiva ed ampia costellazione che è il jazz con tutti i suoi corpi celesti affini, ora che lo sapete, ci sono di diritto pure loro. E se guardate bene, splendono più di tanti altri.



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Michele Merenda

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