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THE SKYS Colours of the desert autoprod. 2011 LIT

Quasi venti anni sono passati dalle origini di questo gruppo lituano: correva l’anno 1995 e da allora il gruppo ha dovuto subire numerosissimi cambi di formazione, ha dato alla luce alcune release amatoriali, incluso l’album di esordio (“Postmodern game” – 2004) ed infine, di recente, pare aver trovato il bandolo della matassa, con un’acquisita professionalità, una line-up (si spera) stabile e alcune importanti partecipazioni a festival internazionali, cosa che ha loro permesso di farsi un nome e poter anche incassare alcune partecipazioni eccellenti a questo loro secondo album. Partendo dalla formazione, troviamo solo due nomi in comune col quintetto che ha dato alle stampe il traballante esordio summenzionato, ovvero quelli del cantante/chitarrista Jonas Čiurlionis e quello del chitarrista Aleksandr Liutvinskij. I nuovi arrivi (Božena Buinicka, tastiere e voce, e Justinas Tamasevičius, basso) sono integrati, come dicevo, da un notevole numero di ospiti, primo fra tutti ovviamente un batterista, nella persona di Martin Beedle (la band poi ha reclutato un batterista di ruolo: Ilja Molodcov). Ad esso si uniscono poi John Young (tastierista della band di Fish), Tony Spada, David Kilminster (Roger Waters Band), Snake Davis (che ha suonato con Eurythmics, Ray Charles e Paul McCartney) e Anne-Marie Helder (Mostly Autumn e Panic Room). Il disco che ne viene fuori è decisamente interessante, se amate un Prog energico, piuttosto new-Prog oriented, discretamente realizzato e con alcune canzoni, tra le nove qui presentate, decisamente interessanti. E’ il caso della iniziale title-track, dalle ritmiche indiavolate e con assoli di tastiera che raramente ascolteremo nel prosieguo dell’album, o della bella “Walking alone”, il pezzo più lungo dell’album. Il disco purtroppo però alterna alti e bassi, con la presenza di brani che fanno storcere decisamente la bocca, come la smaccatamente floydiana “When the Western wind blows”, l’immediatamente successiva “Calling out your name” che, nonostante un discreto intermezzo centrale strumentale, ha uno stile un po’ troppo blues-rock e sing-along, o la poppeggiante traccia conclusiva “What if”. Il gruppo se la cava decisamente meglio nelle sequenze più tirate, in cui la musica comincia a volare, sia che si tratti di parti strumentali (tipo il finale di “The pyramid”), sia in quelle in cui il cantato accompagna degnamente queste sfuriate strumentali, come nella già citata title-track. Un brano abbastanza particolare è peraltro la penultima traccia, “Lethal kiss”, un pezzo d’atmosfera, con richiami floydiani, ritmiche lente e cadenzate, sonorità di finto-sitar, un cantato quasi sussurrato ed un finale in crescendo caratterizzato da un lungo vocalizzo femminile. Il gruppo lituano dunque ha fatto notevoli passi in avanti da quello che conoscevamo, sicuramente dal punto di vista tecnico; se il gruppo riuscirà a scrollarsi di dosso ancora qualche incertezza residua e l’eccessiva venerazione per l’universo Pink Floyd, sicuramente avremo un bell’acquisto per il consesso Prog mondiale; nel frattempo possiamo tranquillamente ascoltarci quest’album che, nel complesso, è comunque decisamente gradevole.


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Alberto Nucci

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