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MELNITSA Angelofreniya Navigator Records 2012 RUS

Ero molto dubbiosa sull’affrontare o meno questa recensione: album del genere, che segnano cioè il declino di una band che apprezziamo, vorremmo che non arrivassero mai. C’è poi la il fatto che quest’opera, la quinta in studio per i Melnitsa, si discosta sensibilmente dalla sfera del Progressive Rock, acquisendo delle connotazioni radiofoniche e commerciali che vanificano un po’ la splendida poetica che contraddistingueva le passate produzioni. Reperire poi i dischi russi non è sempre agevole al di fuori di quel paese, la sfida quindi, considerato tutto, si appresta ad essere davvero svantaggiosa da accettare. Come stavo dicendo lo stile del gruppo, dedito fino ad ora ad un grazioso progressive folk di matrice celtica, contraddistinto dall’arpa e dalle corde vocali della bella Natalya O'Shey, si è molto scolorito e semplificato, in favore di trame ritmiche schematiche, di melodie cantabili che sono sempre al centro assoluto dell’attenzione e arrangiamenti sempre meno sinfonici e sgargianti. Da questo punto di vista la traccia di apertura, “Odnoy krovy”, è quasi una doccia fredda, con la sua base musicale che sembra quasi in stile karaoke. Mi spiace molto ma non riesco proprio ad elevarmi al di sopra di questa sensazione e la fruizione del pezzo per me rimane totalmente indigesta. Se questo è uno degli episodi peggiori del disco, ne troviamo altri migliori ma comunque non entusiasmanti, come la successiva “Dorogy”, che somiglia un po’ alle cose passate ma che con il suo ritmo binario scandito dalla grancassa non sembra portarci molto lontano. Sembra quasi che il gruppo esegua un repertorio scolastico, qualcosa di ordinaria rappresentazione, ben fatto ma che non convince, forse magari imbastito per un pubblico a larghissima base e non troppo esigente. I Melnitsa godono ormai di tantissimi consensi in patria che li portano negli stadi e in televisione e mi pare ovvio che possano furbescamente pensare a una strategia di marketing. Gli elementi folk li troviamo ancora ma sono molto dissipati nel contesto di canzoni piacevoli solo a livello epidermico ma con ben poco spessore. Vediamo un po’ se da questo disco posso trarre in salvo qualcosa e direi che una parziale riscossa la troviamo nella ballad centrale “Reka”, con cori molto suggestivi che ricordano vagamente nel feeling “Adiemus”, il pezzo di Karl Jenkins che prende nome dall’omonimo progetto. Interessante è anche “Nepereletnaya” che presenta belle linee melodiche che però perdono molto incollate così su una base ritmica che potrebbe benissimo essere frutto di una drum machine. “Chto ti snaesh” è un altro pezzo lento che recupera belle atmosfere elettrificate dalla chitarra che non mi dispiace ma poco altro a dire il vero riesce ad attirare il mio interesse e i momenti belli, che comunque possiamo trovare sparsi qua e là in queste dodici canzoni, sono purtroppo soffocati da una pressoché totale mancanza di fantasia e di ispirazione. Sono molto amareggiata per questo album ma vi consiglio comunque di recuperare i primi tre lavori del gruppo che rimangono, secondo me, fra gli album di prog folk celtico più belli, con un tocco tutto particolare fornito dall’uso della lingua russa.


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Jessica Attene

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