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MARBIN Last chapter of dreaming Moonjune 2013 USA/ISR

Con giusto orgoglio, è ancora la MoonJune che riporta i Marbin e la loro terza fatica sul mercato. Tutti i brani sono stati registrati durante il tour del 2012, a zonzo tra gli Stati Uniti e con una puntatina nella loro terra di origine, Israele. Poi tutto il materiale è stato portato in studio, prima a Burbank e poi a Chicago, per gli esercizi di pulitura, assemblaggio, mix e master. Fase riuscita alla grande, visto il risultato del CD, estremamente pulito, brillante e chiarissimo in ogni suo suono e risvolto.
La band, oltre al punto fermo della formazione, il duo Markovitch – Rabin, si è decisamente allargata. Gustiamo il ritorno del bravo batterista Justyn Lawrence, presente nel disco di esordio e l’arrivo del bassista Jae Gentile, più oltre una dozzina di special guests, per una ricchezza di suoni davvero interessante e nomi con collaborazioni di gran lusso da Pat Metheny a Paul Simon, da Herbie Hancock a Carly Simon.
I brani ruotano sempre attorno a un brillante mix di jazz rock, blues, rock, con brevi contatti con il folk acustico e persino accenni melodici. Sono tutti abbastanza brevi, con punta massima poco sopra i cinque minuti, ma perfettamente sviluppati e compiuti. Il lavoro di tutti gli strumentisti è assolutamente esemplare, rasenta spesso la perfezione stilistica ed esecutiva. Rabin si presenta in forma smagliate, un po’ Fripp, un po’ Holdsworth, un po’ Metheny, un po’ Gambale, ma in conclusione assolutamente stratosferico nella sua pulizia e inventiva. I temi si intrecciano in maniera piacevolissima con il sax di Markovitch, ariosi, aperti, spesso persino allegri e trascinanti, ma senza tralasciare spunti più mesti e riflessivi. Il sapore è talvolta di rimando ai Weather Report, specie grazie alle belle e ricercate atmosfere di sax, come ad esempio in “Volta” o in “Down goes the day”. Ogni traccia è un po’ sorprendente, per costruzione, per sviluppo, per atmosfera. Molto belle e ricche sono la concettuale “Inner Monologue”, la struggente “And the night gave nothing” e la più tipicamente progressiva “The ballad of Daniel White”. La chiusura del disco è affidata alla title track “Last chapter of dreaming”, riflessiva, dai tratti quasi mesti ed evocativi, dal crescendo che porta a arie quasi epiche, mantenendo intatto il climax che porta a lontane ansie e nostalgie, espulse grazie a un uso molto personale di temi blues e di jazz progressivo.
Un lavoro davvero bello, che si lascia ascoltare tante, tante volte senza paura di stufare. Un acquisto dovuto agli amanti del genere, soprattutto se si dovesse avverare la visione nefasta lasciata intravedere dal titolo e che questa sia la loro ultima opera.


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Roberto Vanali

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