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GADI CAPLAN Look back step forward autoprod./Two Side Moon 2013 ISR

Recensione praticamente in anteprima mondiale in questo mese di giugno 2013, per un album che sarà sul mercato soltanto negli ultimi giorni di luglio.
Il compositore israeliano Gadi Caplan, che sceglie la chitarra come strumento di espressione (pur avendo iniziato col pianoforte in tenera età), torna a farsi sentire dopo che il suo esordio “Opposite views” aveva ricevuto ottime critiche e recensioni dagli addetti ai lavori. Viaggiando molto, dall’India agli Stati Uniti, ha avuto modo di conoscere nuove culture e relative tradizioni musicali, studiando altri strumenti come il sitar. Un affascinante compendio di situazioni armonizzate con la passione per il jazz, la fusion, il rock ed anche il funk. Assieme a dei validissimi musicisti capaci di rendere al meglio le partiture di sua composizione, Caplan intrattiene l’ascoltatore con una decina di brani che fanno quasi da contorno a dei momenti di rilassatezza; pur essendo elaborazioni parecchio studiate, le musiche scorrono tranquille ed allo stesso tempo lasciano qualcosa di concreto.
Gadi Caplan nel suo approccio somiglia un po’ a Pat Metheny: un grande bagaglio tecnico riconosciuto da tutti, ma spesso l’elemento compositivo va oltre anche agli spazi che il chitarrista americano avrebbe dovuto riservare per sé. Tutto ciò capita anche in questo album e magari potrebbe lasciare scontento chi vi si avvicina credendo di poter assistere alle ennesime acrobazie iper-tecniche. L’israeliano si concentra molto di più sulle composizioni, pur non disdegnando di dare saggio della propria bravura, snocciolando spesso degli assoli fantasiosi. L’inizio è affidato ai fiati di “It’s all the same”, un jazz ritmato che sa parecchio di funky, in cui poi scorre il piano elettrico di Michael Hurwitz (anche se non lo si può dire con molta sicurezza, vista la presenza di numerosi tastieristi su questa traccia); Caplan irrompe con una fase solista che però, nonostante il lieto preludio, si rivela fin troppo breve.
Un bell’arpeggio porta alla seguente “Charlotte”, completamente acustica, per passare a “Brother”, cantata da Oded Weinstock. Un episodio invero non molto esaltante, se non fosse per l’assolo in crescendo di Caplan, davvero coinvolgente e d’atmosfera. Da questo determinato punto, l’album comincia a girare in un modo ben preciso e forse prende inizio proprio qui.
“Within the clouds” è firmata George Harrison/Gong, un chiaro tributo di Gadi ai suoi riferimenti seventies. Il ricreare ambientazioni di particolare meditazione tramite partiture jazzistiche diventa quindi il leit-motiv dell’intero lavoro. “Within…” è tra i momenti migliori, con una personalissima rilettura del chitarrismo pacato ed ispirato di Steve Hillage che porta davvero a spaziare con la mente tra le nuvole, con un grande lavoro della sezione ritmica scelta per l’occasione: Moses Eder e Alex Santiago (batteria), più Maciej Lewandoski (basso). Il basso che invece apre “Frostbite” è di Noga Shefi, per un’esecuzione che guarda all’alienazione dei controtempi crimsoniani e a quel particolare approccio chitarristico contorto di Frank Zappa poi re-interpretato da artisti contemporanei come Ron Thal o David Fuczinsky. Ma ci sono anche le dissonanze curiose dei nostrani Slivovitz, riportando perciò all’eclettismo di John Zorn, la cui mano comincia a farsi sentire sempre più concreta nei pezzi immediatamente successivi.
“Indian Summer” è sempre quieto jazz/fusion dal grande effetto, in cui l’acustica disegna la linea che il pianoforte di Hurvitz, il flauto di Tucker Antell e il violino di Duncan Wickel devono seguire per intarsiare ghirigori contemplativi. Contemplazione che diventa via via più godibile in “Look back step forward”, ancora uno degli episodi più belli, in cui Wickel suona col proprio violino un motivo che, intrecciandosi alla tradizione ebraica, viene ripetuto ed accresciuto ad ogni giro, fino ad arrivare ad un apice che sapientemente viene fatto sfumare. Ancora riferimenti alla propria tradizione nella chitarristica e fumigante “Monsoon season”, in cui degli alisei umidi avvolgono con soluzioni che non a caso stanno proprio a confine con quelle “arabeggianti” scelte da Eddy Wynne degli Ozric Tentacles.
La rilassatezza prende sempre più forma con “A Latin winter”, dove per una volta il jazz chitarristico di impronta sudamericana non mette sonnolenza ed intrattiene piacevolmente con soluzioni che fanno pensare ad un Metheny più “corposo”. Si chiude con “Tesha”, tornando sulla porta che apre le strade verso il Medio Oriente più vicino, ancora una volta con le ottime scelte di un violino sempre più impetuoso nella sua tranquillità.
L’album è terminato molto velocemente e quasi quasi viene voglia di riascoltare qualche pezzo per il piacere di sentire nuovamente qualche passaggio, alcune sfumature che erano piaciute... Finendo per risentirlo di nuovo (quasi) tutto daccapo. Segno – come già detto in apertura – che la musica di Gadi Caplan non è solo di semplice fruizione ma presenta anche dei contenuti concreti che lasciano qualcosa di importante, tanto che queste melodie viene voglia di sentirsele e risentirsele.
Davvero bravo, Gadi (inizio a parte, che per le scelte lascia in effetti qualche perplessità).



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Michele Merenda

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GADI CAPLAN Morning sun 2016 

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