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DIANOYA Lidocaine autoprod./Glassville Records 2012 POL

La lidocaina è comunemente utilizzata come anestetico locale e trovo questo titolo molto in linea col fatto che questo album non mi regali particolari emozioni. Chissà a che avrà pensato il quintetto polacco quando lo ha scelto? Non che il disco, il secondo dei Dianoya, sia realizzato male, anzi, la produzione è molto curata ed il sound, anche se abbastanza potente e spesso distorto, è profondo e netto. Non si intravedono particolari tecnicismi per un’opera che si sbilancia più verso il metal che verso il prog e l’elemento in maggiore evidenza risulta sicuramente il cantato ipnotico e vellutato di Filip Zielinski che si esprime in un buon inglese. Per quel che riguarda le chitarre, queste hanno una valenza soprattutto strutturale intervenendo comunque con parsimonia ad appesantire la musica con riff distorti. Mancano quasi gli assoli ed i dialoghi strumentali e Jan Niedzielski appare quasi come un buon carpentiere che costruisce solidi muri di suoni nell’intento forse di arginare in qualche modo la noia che un ascolto del genere quasi inevitabilmente suscita. Anche la sezione ritmica è abbastanza regolare nella sua performance e non ci regala sussulti contribuendo ad appiattire le sensazioni. E’ notizia recente l’abbandono del bassista Artur Radkiewicz e del batterista Lukasz Chmielinski, ora sostituiti da Bartek Turkowski e Dawid Artyszuk, e quindi in futuro potrebbero esserci anche delle novità nella costruzione dei brani e inevitabilmente anche nell’uso, ora molto limitato, delle tastiere che erano curate proprio dal defezionario Artur. Ma qui siamo nel campo delle speranze e delle ipotesi, la realtà che possiamo assaporare per ora, come detto, non è particolarmente stimolante. Interessanti parallelismi possiamo trovarli con i Tool, anche se qui manca tutta la carica emotiva dei più famosi colleghi e, sempre con le dovute distanze, possiamo scomodare anche i connazionali Riverside in una versione molto più basic e dotata di un appeal decisamente inferiore. Se da una parte preferisco gli episodi più rilassati e meditativi, come la fluida “Best Wishes” dalle fragranze lievemente psichedeliche, o anche l’appena più variegata “Cold Genius”, mi rendo comunque conto che queste tracce mancano di struttura e carattere, seppure nel loro complesso non siano affatto male, e i tentativi di rinforzare il sound con i riff di chitarra non fanno altro che creare delle inutili zavorre che ostacolano ancora di più la scorrevolezza dell’album. Ne risulta che arrivare a fondo è un’esperienza abbastanza faticosa, a meno che non siate patiti del genere, anche se, ne sono certa, troverete in questo campo delle alternative migliori. Non ci resta che sperare che la band abbandoni in futuro gli anestetici preferendo magari qualcosa di più stimolante se non proprio stupefacente, in senso metaforico ovviamente…


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Jessica Attene

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