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UTOPIANISTI Utopianisti II Lusti Music 2013 FIN

Torna dopo due anni il polistrumentista finlandese Markus Pajakkala con il progetto Utopianisti (formato dalle parole “Utopia” e “nisti”, che in finlandese vuol dire “drogato”), proseguendo in quella ricerca sperimentale che vede in primo piano il territorio jazz ed anche alcuni sentieri del prog. Con lo spiegamento di fiati spesso e volentieri sciorinato, forse – anche se in maniera molto azzardata – si potrebbe pensare a dei Gentle Giant che hanno dato completamente di testa. Anche se, oggi come oggi, il gruppo che si avvicina maggiormente per vocazione musicale sembra essere quello degli americani Atomic Ape . La copertina – in cui vi sono disegnati simpatici animali intenti a suonare strumenti musicali in un’atmosfera scura da profondo sottobosco – nonostante la sua semplicità rimanda a dei ritmi dal fervore antico, ritualistico, ancestrale, appartenenti cioè a tradizioni da noi ormai completamente dimenticate.
Il secondo lavoro degli Utopianisti è più complicato del primo. Nel precedente, infatti, c’era più che altro una grande energia volta al divertimento (altro contatto con gli Atomic Ape), al piacere di spiazzare l’ascoltatore e magari coinvolgerlo ancora stordito nelle danze folli; nel secondo capitolo, invece, bisogna dare conferme riguardanti i propri piani. E allora la faccenda si fa maledettamente più seria, anche perché bisogna – contemporaneamente – riuscire a non sconfessare la propria filosofia di partenza. Così, tanto per andare sul sicuro, si parte con “Mekonium fist” (dedicata alla bellezza della riproduzione umana…), che rimanda fin dal titolo a quella “Plutonium fist” con cui si apriva alla grande l’esordio del 2011. Mika Tyyskä (detto anche Mr. Fastfinger!) non si dà alle spettacolarizzazioni chitarristiche del suo predecessore Tom Gardiner, ma risulta comunque efficace, anche grazie al supporto della The Utopianisti Big Band, composta da undici musicisti che spesso vanno a coadiuvare Markus Pajakkala con altrettanti strumenti a fiati. Un muro… di ottoni, che conferisce corposità e allo stesso tempo dinamismo.
Certo, non tutti i brani viaggiano sui medesimi livelli. Motivo in più per consigliare quest’album soprattutto a chi ha già avuto modo di apprezzare il primo (vedi relativa recensione) e che quindi ha avuto modo di entrare nella forma mentis più adatta. Andando perciò a balzi, bisogna saltare verso “Pohjola”, brano tranquillo e vario dedicato al connazionale Pekka Pohjola, bassista (tra gli altri) dei Wigwam ed autore come polistrumentista di una vasta discografia in cui è davvero difficile trovare qualcosa di brutto. Un altro gran pezzo è senza dubbio “The Forest of the Bald Witch”, cavalcata “stonatamente” visionaria grazie anche a buone dosi di Canterbury, resa suggestiva dai passaggi d’organo di Kalle Elkomaa e di chitarra di Antero Mentu. “Kynttilöitäkin vain yski” (“solo una candela”) è dedicata a Juha Watt Vainio (paroliere, cantante ed insegnate finlanedese); un ritorno al klezmer scanzonato che aveva pervaso buona parte della precedente uscita, tra violino e fisarmonica assolutamente spregiudicati. La seguente “Spanking time”, con la voce alla carta vetrata di Pharaoh Pirttikangas, ha come chiarissimo riferimento Captain Beefheart; con due chitarre su due differenti canali, un basso parecchio presente che scandisce il tempo e un magma incontrollato di fiati, risulta il brano più duro e decisamente rock.
Tutto finito? Nemmeno per sogno. Dopo i primi otto pezzi, composti tra l’autunno del 2012 e quello del 2013, ce ne sono altri quattro registrati in presa diretta durante l’agosto 2012 sotto il nome “Utopianisti meets Black Motor & John Ballantyne”. Trattasi di un quintetto che vede proprio Ballantyne alle tastiere ed altri musicisti ai fiati, basso e batteria. Il risultato finale è assai variegato: dal jazz fumoso e meditativo di “Too many eyeholes” a quello un po’ più movimentato di “The Sundays of love and peace”, passando per il caos abrasivo di “Mechanoid makeout music” (vengono a volte in mente gli Elephant9) ed i lunghi undici minuti e mezzo della creativa “Derelicts in space”. Una carrellata tra modi differenti di mettersi a jazzare, insomma. La conclusione spetta a “U.L.J.C. (The Unnecessary Leftover Jam Compilation), in cui Pajakkal, i Black Motor, insieme ai chitarristi Antero Mentu e Anssi Salminen, in oltre nove minuti si lasciano andare a tutta una serie di differenti jam sperimentali, con esiti spesso spiazzanti in stile prettamente zappiano, ma allo stesso tempo da seguire senza nessuna preclusione. Le parti soliste sono infatti molto interessanti, compreso anche un gran lavoro suggestivo al sitar. Si conclude l’analisi dicendo che nell’album vi è anche una dedica a Wesley Wellis (cantante e songwriter statunitense di colore, a cui venne diagnosticata una forma di schizofrenia cronica nel 1989), con “The Vultures were hungry”.
Come detto all’inizio, questo è un lavoro consigliato soprattutto a chi ha già sentito l’esordio e l’ha anche apprezzato. Per non giungere subito a conclusioni affrettate, quindi, ancora una volta si consiglia di andarsi a sentire il primo album omonimo e stabilire se è il caso di soffermarsi a metabolizzare. Dal canto suo, Markus Pajakkala si mette in evidenza soprattutto come un bravo batterista ed eccellente flautista, capace di dire davvero qualcosa in più. Le sue composizioni, sempre ben curate nei dettagli, sicuramente non piaceranno a tutti. Ma questa è stata una scelta ben precisa di cui, ad oggi, il nostro non sembra essersi pentito. C’è da segnalare che pare stia partendo un suo nuovo progetto live… Gli interessati, drizzino le antenne. Tutti gli altri, continuino pure a tenerle abbassate.



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Michele Merenda

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