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UT GRET Ancestors’ tale AltrOck 2014 USA

La leggenda narra che gli Ut Gret (Ut dalla nota più bassa dell’organo nella musica medievale e Gret da una tribù barbara del XII secolo) avessero suonato per la prima volta in pubblico nel 1981, dividendo il palco con un manipolo di molesti gruppi punk che si aspettavano da loro qualcosa di moscio e noioso e che invece finirono per sbattere la testa contro un agguerritissimo quartetto di free jazz che lasciò tutti di stucco. Nel 1989, trasferitisi a Louisville a seguito di un grosso terremoto nella Bay Area, erano diventati un duo formato dai multistrumentisti Joee Conroy e David Stilley al quale si aggiunsero presto altri musicisti fra cui Gregory Acker, costruttore di strumenti musicali e appassionato di musica indonesiana, africana e indiana che ricordiamo anche nella line-up di “Intestinal Fortitude” dei French TV.
La versione odierna della band, che ha attraversato forme di vita ed esperienze assai diverse, nasce dal sodalizio fra Conroy e uno dei membri fondatori dei French TV, Steve Roberts, che si incontrarono per caso scoprendo con sorpresa di avere molte passioni in comune, fra cui il Prog e le cose strane. Lo splendido album “Radical Symmetry” del 2011 nasce da qui, come vivace collettore delle tante idee sviluppate negli anni dal gruppo che col tempo si sono sempre più stratificate e incredibilmente integrate le une con le altre. Questa nuova opera, che registra l’arrivo di Jackie Royce al fagotto e al flauto, appare in diretta continuità con la precedente e sembra in effetti costruita su tanti spartiti sovrapposti che si possono intravedere singolarmente in controluce e che assieme formano un tessuto ricco di tanti particolari accostati con armonia e buon gusto.
L’amore per gli Henry Cow è una faccenda di lunga data, come si può vedere chiaramente già ai tempi dell’esordio discografico “Time of the Grets”, una raccolta di improvvisazioni sfacciate fra le quali spicca un pezzo dal titolo “Friend of the Cow”… come del resto non può passare inosservata, nello stesso CD, un’altra traccia che si chiama “Magma Futura”. Un altro ingrediente importante riguarda la musica etnica, di derivazione assai ampia e diversificata, che inizia ad avere un ruolo centrale nel triplo CD “Recent Fossils” del 2007, dove viene impiegata una fitta schiera di strumenti che comprende Didgeridoo, Santoor, salterio, arpa, shakuhachi (flauto dritto giapponese), koto e persino un set di gamelan. Del resto il gruppo stesso ci tiene a definire la propria musica “pan-idiomatica”, intendendo con questo termine qualcosa che attraversi contemporaneamente diversi generi e stili. Fra questi riconosciamo il jazz rock di matrice Canterburyana, che viene usato come diluente in molti brani, per ammorbidire forme ed atmosfere, ma anche la musica contemporanea, come il folk, di provenienza più disparata, l’avanguardia sperimentale e l’improvvisazione e, non ultima, tanta sana autoironia che riesce a rendere più frizzanti anche gli accostamenti più astrusi.
A questo punto potreste pensare che al gruppo basti fare un po’ di confusione, rimescolare le carte e gettare qualsiasi cosa in un grosso frullatore musicale per propinarci una strana sbobba che perde il sapore dei singoli ingredienti a favore di un nuovo gusto esotico male individuabile. Quello che mi sto sforzando di farvi capire invece è che le cose non stanno affatto così. Gli elementi sovrapposti e intrecciati sono innumerevoli ma la coerenza, dolcezza persino, e la nitidezza del risultato finale hanno quasi dell’incredibile. Un bell’aiuto in tal senso lo fornisce la splendida voce della cantate folk Cheyenne Mize, così suadente e ben modulata, che sembra sussurrare a pochi millimetri dalle nostre orecchie solleticandone i sensi col suo stile un po’ soft jazz. Ascoltatela ad esempio nella bella title track, un brano dai rigogliosi spartiti sinfonici e dai vivaci riflessi Canterburyani; in questo tessuto ricchissimo di particolari mi fa quasi pensare agli americani U Totem. Oppure ammiratela in “Selves Unmade”, mentre ripete in modo ipnotico Round & round, come a volerci far girare la testa mentre la musica si sviluppa con i suoi magici intarsi. In questo brano dai riflessi psichedelici, con vaghi richiami ai Renaissance, si fa notare il clarinetto con splendidi assoli di matrice jazz che ci fanno scivolare da un genere all’altro senza neanche accorgercene.
Se c’è una cosa alla quale gli Ut Gret porgono particolare riguardo è la varietà delle timbriche degli strumenti a fiato. In questo album spicca ad esempio un russante e cavernoso controfagotto che addirittura ci concede un paio di assoli interessanti e a dir poco grotteschi nelle buffe tracce centrali “An Elephant in Berlin” e “Dinosaur on the Floor”. In queste due occasioni più che in altre mi vengono in mente, forse per la spiccata vena ironica, i già citati French TV. Il primo di questi brani, che si sviluppa in modo lento e bizzarro, si ispira a un elefante da circo sopravvissuto ai bombardamenti che nel ’44 rasero al suolo Berlino. Il ritmo è martellante e, mentre il fagotto ed il controfagotto bofonchiano e borbottano, il pianoforte offre un tocco cameristico che alleggerisce appena le sonorità lugubri. Anche la traccia successiva è molto curiosa, con un tema musicale a metà strada fra la colonna sonora di 007 e “Kashmir” dei Led Zeppelin. Da segnalare anche “The Grotesque Pageantry of Fading Empire”, un pezzo che Steve Roberts scrisse addirittura ai tempi della sua militanza nei French TV e che all’epoca non fu utilizzato. Dalla base lenta e solenne si staccano via via con prepotenza gli strumenti solisti, fra cui una tagliente chitarra elettrica un po’ Frippiana, lo splendido clarinetto di Steve Good ed il flauto di Jackie Royce che si affaccia come due grandi occhi gialli che penetrano il buio profondo della notte. E non dimentichiamoci degli elementi sinfonici, che di certo non mancano, nonostante la complessità dei brani che spesso sfocia nell’avanguardia. Possiamo citare come esempio “Zodiac” in cui riemerge ancora lo spettro di Fripp. Troviamo qui frasi musicali estremamente suggestive, melodiche e romantiche a cui ne seguono altre un po’ più tese. Il piano svolge il suo ruolo magistralmente e conferisce al pezzo un’impronta piacevolmente classicheggiante. Il Mellotron, qui come un po’ ovunque in questo album, è molto persistente. Belli anche i dialoghi tra clarinetto e fagotto che si intrecciano con grazia, ognuno parlando il suo linguaggio e senza ascoltarsi, in un groviglio intricato ed intrigante di suoni.
A questo punto, giustamente, potreste chiedervi come tutta questa roba riesca a stare assieme e fidatevi se vi dico che, come per magia, tutto si regge splendidamente in piedi in una formula per giunta piacevolmente fruibile, nonostante l’abbondanza di idee, la loro estrema varietà e la complessità degli spartiti. Trovo difficile che questo album esca presto dalla mia testa e dalla mia lista dei preferiti dell’anno in corso, anche se di tempo per le classifiche ce ne è ancora tanto ed i potenziali concorrenti di sicuro non mancheranno.


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Jessica Attene

Collegamenti ad altre recensioni

FRENCH TV French TV 1984 (Pretentious Dinosaur 2000) 
UT GRET Radical symmetry 2011 

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