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XAVI REIJA Resolution Moonjune Records 2014 SPA

La sperimentazione, soprattutto in territori musicali apparentemente minimali, sembra essere ad oggi l’elemento che ancora può dare un senso (quello originale, almeno) al termine “prog”, sia in ambito rock che in quello jazz. O quantomeno è quello che tenta di fare il batterista catalano Xavi Reija, che adotta il termine tecnico “risoluzione” (una complessità che viene spiegata nelle prime righe del booklet) come titolo di un album che dichiaratamente fa uso della dissonanza per creare delle atmosfere che diano la sensazione di trovarsi in una specie di limbo sottomarino, eternamente sospesi senza che si riesca mai a venirne fuori, dove si creano anche notevoli spazi tra le note. Sembra che quest’ultime vengano economizzate con sapienza matematica, per un approccio estremamente scientifico, razionale, che vuole approdare ad un modo differente di intendere i brani. Un intellettualismo che a quanto riportano le note di copertina vuole andare a confluire a sua volta in un avventuroso post-rock/avant jazz, sicuramente tortuoso e difficile da assimilare al primo ascolto nel suo essere adimensionale.
In questa immersione profonda non poteva non esserci il chitarrista spagnolo di origini serbe Dusan Jevtovic, che sempre per la Moonjune aveva pubblicato nel 2013 “Am I walking wrong?”, caratterizzato da un approccio alle sei corde molto Frippiano. Qui, se di Robert Fripp si vuol parlare, bisognerebbe far riferimento alle collaborazioni con Brian Eno, in cui la sperimentazione di cui si parlava in apertura raggiungeva soluzioni estreme, capaci di dividere nettamente l’opinione degli ascoltatori. Su “Resolution” abbiamo un Jevtovic se possibile ancora più anticonvenzionale che nelle sue uscite soliste. Xavi Reija, infatti, ha spogliato il proprio quintetto orginario di tastiere e sax, affidando tutto alle possibili capacità espressive di un trio, portando alle estreme conseguenze ciascuna stesura musicale. Diventa così imprescindibile e determinante la tecnica del bassista Bernat Hernandez, presente già sull’album del chitarrista serbo-catalano, che con le sue fughe improvvise si dimostra alla fine l’elemento forse più positivo.
L’iniziale “Flying To Nowhere”, per quanto viaggi quieta come quasi tutte le composizioni, trasuda distorta elettricità da ogni dove, con la batteria che ad un certo punto incalza l’andamento di una chitarra che monta sempre più su di giri. In “Macroscope” i tre si muovono come una macchina perfetta, quasi fossero un congegno ad orologeria; batteria e basso fanno evoluzioni sempre più complicate impiegando ogni volta il medesimo tempo per eseguire un giro, mentre alla chitarra è affidato il compito di spiazzare chi ascolta, tra pause violente e continue distorsioni. “Shadow Dance” sembra più orientata sul versante classicamente jazz-rock, pur con tutte le precauzioni del caso. Poi però si rimane intrappolati nei quasi dieci minuti di “Dreamer” e si ha davvero la sensazione di ritrovarsi in uno di quei sogni in cui tutto si ripete continuamente, all’infinito, creandoci un’ansia sempre maggiore e asfissiante, soprattutto perché non si riesce mai a venirne fuori, a svegliarsi pur volendolo disperatamente. Da questo punto di vista le dissonanze di “Abyss”, a confronto, risultano persino rassicuranti. Dopo la quiete appena accennata, sempre con una tensione latente, di “The Land of the Sirenians”, si arriva ad “Unfinished Love”, in cui finalmente l’energia sgorga senza alcuna strozzatura predeterminata, grazie anche ad un eccellente drumming tentacolare che ricorda quello di Billy Cobham quando suonava all’unisono sugli assoli live di Santana e McLaughlin. Durezza espressiva che prosegue bene con “John’s Song”, anche se vi è inserito uno dei soliti stacchi catatonici…
Fino alla fine dell’album, le coordinate saranno quelle fin qui evidenziate, con la conclusiva “Welcome to the End”, dalle cadenze molto nere, caratterizzata da un inizio a suon di slap di basso e da un finale dove la batteria sembra letteralmente commentare con un linguaggio ripetuto le battute di Jevtovic. E tirando le somme, sembrerebbe proprio che Xavi Reija voglia comunicare proprio questo con il suo percorso artistico: l’introduzione di un linguaggio che corrisponda a dei codici che ancora devono essere del tutto prima riconosciuti e poi compresi dal pubblico. Il consiglio è di ascoltare con la dovuta calma questo lavoro, perché all’inizio, se usufruito tutto d’un fiato, potrebbe portare a collassare sul letto in un sonno per nulla ristoratore. E al risveglio, in prima battuta, si potrebbe anche non credere pienamente a ciò che si vede tutto attorno, stravolgendo così le convinzioni di una vita.


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Michele Merenda

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