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BRÖSELMASCHINE Bröselmaschine Pilz 1971 (Belle Antique 2013) GER

Se ascolterete quest’opera è sicuro che vi imbatterete in uno degli album più affascinanti del prog folk teutonico. Qualcuno ha utilizzato per la precisione l’etichetta Kraut-folk ma in realtà i suoni cosmici sono un elemento molto remoto in una miscela tutta speciale fatta di psichedelia, musica indiana ed elementi tradizionali più vicini alle correnti inglesi o celtiche che ad altro. Non a caso fra le maggiori influenze dichiarate dal gruppo campeggiano i Pentangle, a dimostrare forse che il folk è qui interpretato in base ad una chiave di lettura moderna e in linea con i gusti di allora, senza alcuna pretesa di rielaborazione fedele della tradizione. Le suggestioni folk sono qui vaghe e confuse, fornite più che altro dalla colorazione acustica degli strumenti, stemperate in densi fumi psichedelici e solo raramente troviamo richiami puntuali, come in “Lassie”, rielaborazione di un brano tradizionale dai riflessi celtici. Regna nell’album una atmosfera generale di pace e spensieratezza che ricorda il colorato mondo dei figli dei fiori e anche la scelta da parte di alcuni membri del gruppo di andare a vivere in una comune, in un appartamento di Duisburg, è un richiamo ad uno stile di vita semplice e nutrito da certi ideali. Qui dividevano le loro esperienze Willi Kissmer (voce, chitarra acustica ed elettrica, zither), Peter Bursch (voce, chitarra acustica, sitar e flauto) e Michael Hellbach (congas, tablas, Mellotron, cucchiai) i quali nel 1969, reduci da un’esperienza con il gruppo Die Anderen, che fece addirittura da spalla a Joan Baez durante il suo tour in Germania, diedero vita a questi Bröselmaschine, intendendo con questo strano nome un aggeggio di fantasia che ha a che fare, non so come, con la lavorazione della cannabis ed il rombo del motore della motocicletta del fidanzato della cantante e flautista Jenny Schmücker. Oltre che da Jenny il gruppo, che aveva acquistato il proprio equipaggiamento per suonare dal vivo direttamente dai Procol Harum, era poi completato dal bassista Lutz Ringer, che suona anche il metallophone, ideofono simile al vibrafono. Il debutto arriva nel 1971 per l’etichetta Pilz e si avvale dello splendido lavoro di produzione del suo proprietario, Rolf-Ulrich Kaiser, musicista, giornalista, direttore della Ohr, pionieristica scuola di musica elettronica e sperimentale di stanza a Berlino, spirito poliedrico con le mani in pasta un po’ dappertutto, basti pensare al suo contributo, sempre in veste di produttore, alla realizzazione di intramontabili gemme come “Zeit” dei Tangerine Dream o “Traum” degli Hölderlin (album quest’ultimo in cui compaiono come ospiti in un brano, ricordiamolo, proprio Peter Bursch e Michael Hellbach, rispettivamente al sitar e alle tabla). Trentacinque soltanto i minuti totali di musica, con i brani più semplici ed immediati, quattro in questo caso, concentrati nel lato A mentre i restanti due pezzi, più lunghi e complessi, “Schmetterling” di nove minuti e mezzo, e “Nossa Bova” di sette e cinquanta, a dominare l’altra facciata. Oltre al sopramenzionato “Lassie” non vi sono altri brani tradizionali veri e propri ma composizioni dai colori tenui, fortemente caratterizzate dalla voce di Jenny, fragile e languida, fresca e timida, che a tratti tende come a nascondersi fra quelle di Kissmer e Bursch in cori spenti e fumosi. L’altro elemento cruciale è poi rappresentato dalle tessiture elaborate dalle chitarre, in prevalenza acustiche, con rari camei elettrici a dare appena un po’ più di corpo alla musica eterea ed inafferrabile. La brevissima “Gitarrenstück”, un intermezzo dagli intrecci gentili, ce le fa apprezzare particolarmente, con la voce angelica di Jenny che, senza parole, ne segue con grazia le melodie. Se “Gedanken”, la traccia di apertura, appare esile e dalle tonalità soffuse, rischiarata appena dal flauto nelle sue tessiture acustiche, è in chiusura del lato A, con “The Old Man's Song”, che si iniziano a mescolare più densamente gli ingredienti. Entrano in gioco le tabla a disegnare vellutati impulsi ritmici, la voce di Jenny diventa magnetica, evocativa e quasi ascetica mentre la musica scivola via, lentamente alla deriva, in ampi loop stranianti. Suggestivi sono poi gli abbellimenti elettrici della chitarra con l’effetto del wah wah e gli intarsi del flauto, quasi Genesisiani. La magia dell’oriente si fa più tangibile con “Schmetterling”, uno dei due lunghi pezzi che, come già detto, si trovava ad aprire il lato B della stampa originale in vinile. E’ proprio il sitar ad aprire le danze, seguito dalle tabla e di qui in poi è un progressivo crescendo di emozioni. Il misto di fragranze indiane, psichedelia ed elementi dai riflessi blues mi fa un po’ pensare al bellissimo ed unico album dei norvegesi Oriental Sunshine, risalente ad appena un anno prima, mentre il flauto, assieme agli intrecci acustici della chitarra, mi riporta alle orecchie qualcosa dei Traffic. Bellissimo poi il Mellotron, inserito lì un po’ in disparte, con suoni di archi eleganti ed opachi. Inquietante la voce di Jenny che recita quasi meccanicamente qualcosa in tedesco (preciso però che nell’album sono utilizzati anche testi in inglese). Il basso elettrico incalza sul finale e dona appena un po’ di corpo alla musica inafferrabile. Molto bella lo è anche la conclusiva “Nossa Bova”, titolo che nel suo strano anagramma non nasconde nessun colore sudamericano. Le melodie questa volta sono ancora più aggraziate e leggere, come l’aria della primavera carica delle profumate fragranze dei pollini. Ecco ancora riflessi indiani e vivaci trame di chitarra e zither. La voce solista, ora romantica e cantautoriale, ci conduce attraverso questo brano incerto, traballante ed allo stesso tempo incantevole. Alla fine dell’ascolto la musica sembra quasi scivolarci via tra le dita, come la sabbia colorata di un mandala ed i sapori che rimangono sul nostro palato sono vaghi ma piacevoli.
La storia dei Bröselmaschine, di qui in poi, è decisamente travagliata. A tenere le fila rimane sempre Peter Bursch, il cui nome, non a caso, comparirà assieme a quello del gruppo sulle copertine dei nuovi album. Il chitarrista non farà che rimettere continuamente in piedi la sua band, cambiandone i pezzi di volta in volta. Nel 1973 si registra un primo scioglimento al termine di una lunga tournée europea. Alcuni membri se ne vanno in India ed altri si trasferiscono in campagna. Nel 1974 ecco una nuova formazione, e un’altra ancora è già pronta l’anno successivo, col flautista e sassofonista jazz Klaus Dapper ad affiancare la coppia veterana di chitarristi che già conosciamo. Per la realizzazione dell’album “Peter Bursch & Die Bröselmaschine“, pubblicato nel 1976, sono stati chiamati in aiuto, a rinfoltire la line-up ancora incompleta, alcuni amici dei Guru Guru, Mani Neumeier (batteria) e Roland Schaeffer (basso), assieme a Jan Fride (batteria e congas) dei Kraan. “Feel Fine”, il terzo album, arriva nel 1978 ma la musica ha ormai perso tutto il suo fascino virando verso soluzioni di più facile consumo. Il gruppo cambia ancora per “Graublau”, album stampato nel 1985, finché, nel 2005, i Bröselmaschine salgono sul palco con una formazione identica a quella del 1975. L’ultimo album registrato nella discografia del gruppo ad ora è un doppio CD dal vivo risalente al 2008 con un organico ancora una volta ribaltato. Come curiosità biografica aggiungiamo che il leader Peter Bursch ha fondato la sua scuola di musica nel 1995 ed è noto per un metodo di insegnamento della chitarra molto venduto. Grazie a lui hanno imparato a suonare anche alcuni celebri chitarristi fra i quali ricordiamo quello dei connazionali Scorpions. Una annotazione conclusiva la riserviamo infine alla ristampa, edita in un grazioso formato mini LP replica. Le note di copertina purtroppo sono solo in giapponese ed il prezzo non è purtroppo economico ma considerate che le edizioni pubblicate dalla Spalax nel 1994 non si trovano quasi più.


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Jessica Attene

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