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KNIFEWORLD The unravelling Inside Out 2014 UK

Lo sappiamo bene, noi che amiamo rovistare negli angoli un po’ oscuri del mercato progressive, che la sorpresa può venire fuori, inaspettata, da qualsiasi posto. Quello che fa strano è vederla saltare fuori da un luogo arcinoto e arciscontato come l’Inghilterra e da un’etichetta che, generalmente, si occupa di ben altre cose.
A comporre le fila di questi Knifeworld c’è una formazione anomala e piuttosto allargata. Certo, non essenzialmente inedita, ma sufficientemente personale sia per la composizione, sia per l’utilizzo. Ad affiancare una band elettrica di base (batteria, basso, tastiere, chitarra e voce) una sezione fiati composta da ben 3 sassofonisti e un fagotto, un violino e una viola da gamba. Tra tutti anche ben sei vocalist. A guidare la formazione il cantante, chitarrista, compositore di tutti i temi, Kavus Torabi, già leader di una precedente formazione chiamata The Monsoon Bassoon, ospite con i Guapo e pure con i Cardiacs. E proprio questi ultimi sono i punti di riferimento principe per far comprendere ciò di cui si parla. Poi, sì, qui e là assaporiamo momenti zappiani, cameristici, svolazzi che riportano agli Henry Cow (ben più accessibili, intendiamoci) e ai The Muffins. Visti i presupposti, credo non debba sorprendere la mia meraviglia nel notare un prodotto di questo tipo in scuderia Insideout.
La band ha esordito nel 2009 con l’uscita di “Buried Alone: Tales Of Crushing Defeat”, poi qualche EP e qualche anno di silenzio, fino a questa uscita. I tre quarti d’ora complessivi di questo secondo lavoro della band, sono suddivisi in otto tracce che variano in durata dal minuto e mezzo, fino oltre i nove della traccia conclusiva. I brani hanno finalità e risultati molto diversi e anche al loro interno le variazioni sono all’ordine del giorno, formando così un mix di suoni che vanno a scomporsi in momenti più aggressivi e molto ricchi di suono, altri più laconici, minimali, talvolta dal sapore cameristico. L’ascolto è decisamente gratificante, le parti strumentali sono quasi sempre più soddisfacenti rispetto ai cantati che, pur non sempre, sono piuttosto distanti da stilemi progressive o RIO avanguardistici. In effetti le parti cantate sembrano discendere direttamente dalle forme meno pop e maggiormente elaborate della new wave e del punk dell’ultima ora, anzi, andando a sottigliare paiono più consonanti con quel glam leggero, ma determinato, un po’ in ricordo dei primissimi Roxy Music e del primo Ferry solista unito, però, a quel passionale istinto psichedelico di Syd Barret.
Rientrano in questo stile l’opener “I can teach you how to lose a fight” e la notevole “Send him Seaworthy”, che in più presenta soluzioni ritmiche davvero pregevoli. Ma se tralasciamo il brevissimo esercizio post punk di “The Orphanage”, arriviamo al volo alla notevolissima “Don't Land on Me”, dotata di una sezione strumentale centrale dove il pianoforte di Emmett Elvin diventa foriero di positive emozioni e quando la brass section sostituisce i riff di chitarra il sapore di esotico si espande nella mente, come il gusto della frutta matura in bocca.
Discorso un po’ a parte per “Destroy the world”, almeno nella sua prima parte, nella quale un riff di chitarra si agita ritmico su una batteria vagamente alla Portnoy (ma mi dite che è solo per questo che troviamo la band in Insideout?) e la voce di Torabi, che qui troviamo incredibilmente simile al Brian Eno settantiano, è lievemente più forte ed aggressiva che altrove, ma tanto nella seconda parte del brano tutto torna nelle righe più sperimentali, fino a sembrare un incrocio tra canzoni Slapp Happy e ritagli di Inteference Sardines, interessante commistione di eventi. Arriviamo alla conclusione del disco con la traccia migliore del lavoro, la splendida “I’m hiding behind my eys” arpeggi di chitarra, tempi dispari, fiati ricchi e spezzati, atmosfera, temi ispirati. Sembra quasi che il ragazzo, Mr. Torabi, ci stia dicendo che l’universo attorno al suo concetto di musica si sta espandendo e di stare pronti a nuove coinvolgenti avventure. Bene, dico io.



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Roberto Vanali

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