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NOMADS OF HOPE Breaking the circle for a while Papaver 2014 SVE

Per presentare i Nomads Of Hope si può partire da lontano, andare indietro nel tempo fino agli anni ’80 e scomodare un grandissimo gruppo svedese che ha regalato immense gioie a molti appassionati del progressive rock. Stiamo parlando dei Kultivator, sbeffeggiati da alcune teste dure poco attratte dal nome buffo, ma autori di uno straordinario album intitolato “Barndomens stigar” e contenente un prog frizzante, personale, ricco di audaci incastri strumentali con vaghi rimandi alla scuola di Canterbury e allo zeuhl. Tra gli artefici di questa meraviglia figuravano Johan Hedren alle tastiere e alla chitarra e Ingemo Rylander alla voce e al flauto. Probabilmente non molti sanno che questi musicisti (oltre a fare coppia nella vita) hanno continuato a fare musica insieme soprattutto con progetti legati al teatro e a spettacoli multimediali. Giunge comunque un po’ a sorpresa questo cd uscito a nome Nomads of Hope che riporta il duo verso lidi che ci sono vagamente familiari. Questo lavoro contiene, infatti, dodici brani e quasi un’ora di musica legati al prog, ma non solo, anche se si mantengono abbastanza distanti dal sound dei Kultivator.
Se i primi due pezzi mischiano un po’ le carte, la title-track con un’atmosfera bizzarra e suoni moderni, richiamando un po’ certe cose di Bjork e “In the shadows” con un po’ di acidità psichedelica, ecco che gli oltre sei minuti di “Every daybreak” regalano i primi sussulti. Si tratta di un ipnotico viaggio sonoro nel quale vengono in mente i Landberk di “Indian Summer” e i Pink Floyd attraverso melodie stravaganti, ben guidate dalla voce incantevole di Ingemo. In effetti è proprio l’ugola della cantante a diventare la protagonista principale e a rappresentare elemento caratterizzante e comune di composizioni che spesso sono molto diverse tra di loro. Il duo Nomads of Hope sembra voler partire dal passato, prendere percorsi stilistichi differenti, attualizzarli e spingerli verso un’unica direzione. Dopo una “The day” con i suoni ruvidi delle chitarre e i ritmi secchi ingentiliti al meglio dalla Rylander, si susseguono poi tracce in cui un pizzico di elettronica disegna intriganti paesaggi ambient e trip-hop à la Portishead (“Kindly winds”, “Politics and dreams”, “Connections”, “Hear my voice”). Ancora, c’è il pop lunatico di “I use to forget” che rimanda un po’ a quanto fatto dai Paatos e non manca una personalissima visione della world music con “Gloomy silvernight”. La breve “All nights” figurerebbe alla grande in una colonna sonora di un film di David Lynch, mentre la conclusiva “Water flowing” si protrae per oltre sette minuti e mezzo e sembra un perfetto riassunto finale della proposta dei Nomads of Hope, capaci di strizzare l’occhio al prog, alla psichedelia, all’elettronica e al pop.
Eterogeneo, ben costruito, ricco di belle canzoni, “Breaking the circe for a while” è un lavoro riuscito, che gioca col progressive rock, anche se poi si indirizza altrove e in cui la bella performance vocale di Ingemo Rylander, un’accurata registrazione e le indovinate scelte timbriche rappresentano carte vincenti per un album che ha il suo punto di forza nelle suggestive atmosfere.



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Peppe Di Spirito

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