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STEAM THEORY Asunder autoprod. 2015 USA

La “creatura” Steam Theory, vale a dire la proiezione in musica di mr. Jason Dankevitz da Baltimora, giunge al terzo lavoro e per l’occasione sforna un doppio album che già dalla copertina evoca sontuose e solenni estensioni sinfoniche. Le sabbie di un deserto immenso sormontato da nuvole, bave di vento e da un cielo dal blu terribilmente intenso, non possono non far pensare addirittura a scene come quelle del film “Stargate”, tra antico Egitto e pianeti situati ai confini dell’Universo. Difatti, Dankervitz ha avuto modo di dichiarare apertamente la sua passione per i romanzi di fantascienza e per autori come Michael Moorcock, elementi che gli hanno sempre ricreato determinate immagini mentali e che il diretto interessato ha poi tentato – nei limiti del possibile – di tradurre in musica.
Al di là di qualsiasi preferenza soggettiva, bisogna riconoscere al factotum un ottimo lavoro di assemblaggio e produzione; lo si sarà capito, qui si parla di una one man band dedita ad un prog sinfonico abbastanza potente, composto da numerose partiture e da un suono che rispecchia l’intento di ricreare la colonna sonora delle proprie letture e visioni. Basandosi così sulle dichiarate influenze classiche di Prokofiev, Mussorgsky e Stravinski, quelle progressive incentrate principalmente sugli Yes e gli studi sulla musica indiana scaturiti dall’interesse verso l’approccio di John McLaughlin nella realtà Shakti (che lo hanno poi portato anche ad approfondire le ritmiche africane), Denkevitz dà vita a questo mosaico che si divide in tredici parti (da qui il titolo dell’album, “Asunder”, che indica proprio i “pezzi” che compongono l’opera). Tracce strumentali con netta evidenza legate tra loro, nonostante alcune siano attuali ed altre, parlando a livello compositivo, risalenti più o meno al 2000. I contenuti dei cd appaiono per molti versi speculari, con due lunghe tracce di undici minuti per supporto, “Stentorian” e “Saga”, che racchiudono tutte le digressioni volute dal loro ideatore e l’arguzia di quest’ultimo nell’abbassare ed alzare sapientemente i volumi audio per ricreare la voluta enfasi. “Adrift” e soprattutto “Intar”, poste entrambe come seconda traccia di ciascun dischetto, sono tra i momenti migliori, in cui Dankervitz ricrea armonie che proiettano nella terra dei faraoni, sfruttando quelle strutture musicali che dal mondo mediorientale sarebbero poi state fatte proprie dalle tradizioni iberiche (soprattutto andaluse). Non si può certo negare la capacità del polistrumentista statunitense nel saper scegliere di volta in volta la tipologia di strumento adatto, soprattutto quando si tratta di usare al momento giusto le chitarre acustiche o il basso per spostare l’obiettivo su una tematica più jazz-fusion. A tal proposito, si può parlare proprio di virate jazz-fusion soprattutto su “Auguments”, pezzo che apre il secondo cd, in cui le metriche sono molto evidenti e la chitarra elettrica è posta in primo piano assoluto. Ma già dall’iniziale title-track è possibile farsi un’idea ben precisa di tutto quanto si andrà ad ascoltare…
Per riuscire a ricreare la moltitudine di strumenti, Jason Dankervitz si è avvalso delle più moderne tecnologie, sfruttando al massimo soprattutto i guitar-midi, oltre a vari sintetizzatori e drum-machine perfettamente programmate (ricordiamo che tra i suoi numerosi studi vanno annoverati anche quelli di batteria e basso, quindi è legittimo credere che di questioni ritmiche lui ne capisca più di tanti altri); la “Teoria del Vapore”, però, presenta anche un’incarnazione live, che prevede accanto al mastermind di cui sopra la presenza di Michael Esposito (chitarra), Keith Misemer (basso) e Roger Stewart (batteria). In conclusione: l’album è fatto davvero bene, molto godibile per gli appassionati delle atmosfere solenni e pompose, magari un po’ troppo lungo e alla fine anche molto simile a se stesso nonostante la grande prolissità, riuscendo quindi difficile da poter essere usufruito per intero in un unico ascolto. Un peccato, perché i vari elementi in gioco meritano di essere ascoltati e compresi in pieno. A questo punto, è d’uopo attendersi finalmente una pubblicazione che riprenda la band vera e propria dal vivo.
Bello il prodotto finale nella sua confezione, soprattutto se si pensa che si sta parlando di un’autoproduzione e non c’è chissà quale colosso mediatico alle spalle.



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Michele Merenda

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