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GLASS HAMMER The breaking of the World Arion Records 2015 USA

15mo album (o 16mo se consideriamo “One” pubblicato nel 2010, ma con composizioni che risalivano a 20 anni prima dei soli Schendel e Babb) per i Glass Hammer, ad appena un anno dal precedente. Uscito definitivamente Jon Davison (il cui contributo nell'ultimo lavoro era comunque ridotto ai minimi termini), ecco che il microfono ritorna saldamente nelle mani di Carl Groves, soprattutto, e di Susie Bogdanowicz (entrambi membri per molti anni della band statunitense). Oltre ai due cantanti e ai due fondatori Babb e Schendel, abbiamo per “The breaking of the world”, Aaron Raulston alla batteria ed il sempre più convincente Kamran Alan Shikoh alle chitarre. Ospiti, infine, la voce di Michele Lynn (in un brano) e Steve Unruh al flauto e violino in un paio di pezzi.
Piuttosto grande l'attesa per questo nuovo prodotto targato G.H. Per verificare, quanto meno, se la strada intrapresa con “Ode to echo” (che manifestava un certo disimpegno - finalmente - dirà qualcuno, nei confronti dello smisurato Yes-sound presente in “If”, “Cor Cordium” e “Perilous”) fosse confermata oppure no. Certo fatichiamo ad immaginarci il basso di Babb come mero accompagnamento, le tastiere di Schendel per nulla protagoniste o l'aspetto melodico abbandonato ma...
L'iniziale “Mythopoeia” è molto promettente e fornisce già qualche risposta: motivo piuttosto frizzante con subito primi attori basso e tastiere, in un piacevole rincorrersi ben sostenuti dai tempi imposti dalla batteria. Shikoh non è da meno con un paio di interventi importanti, mentre i consueti cori eterei fanno il resto. Dopo una parte centrale piacevolmente acustica, il cerchio si chiude con il ritorno delle solarità solari iniziali. “Third floor” è meno avventurosa della precedente: un piacevole duetto vocale tra Groves e Bogdanowicz contraddistinto da una sottile vena malinconica. Il pezzo poi si accende con continui guizzi dell'elettrica di Shikoh, delle tastiere onnipresenti e delle trame ritmiche del due Babb e Raulston (qui meno “muscolare” che in altre occasioni).
“Babylon” vede affacciarsi il flauto di Unruh che contrappunta con bravura ed accompagna l'intrigante ed intricata composizione, tra le migliori dell'album. Malgrado l'aspetto sinfonico sia comunque in primo piano, si assiste comunque ad un tentativo di allontanarsi dal classico sound del gruppo. Tentativo portato a compimento con successo.
Dopo un breve strumentale (“A bird when it sneezes”), arrivano i tre brani più brevi dell'album, tutti attorno ai 6 minuti. La ballad “Sand”, ben interpretata da Groves, con le note crepuscolari del piano a dettare le linee guida: magari un pezzo interlocutorio, ma interpretato con gusto e che accentua l'animo più soft e romantico della band.
“Bandwagon” ha un contributo molto hard della chitarra elettrica con ritmica serrata ed aggressiva su un refrain comunque ammiccante. Ampio spazio per Hammond e per qualche ricamo di Shikoh, ma nel complesso il pezzo appare meno ispirato di altri ed un po' sottotono.
“Haunted” (voce solista per Michele Lynn) è un'altra soft-song, raffinata e d'atmosfera.
“North wind” ci riconsegna i Glass Hammer più sinfonici con spettacolare inizio di Babb e Schendel ed un bel drumming fantasioso di Raulston. La voce di Groves, seppur piacevole, continua a non entusiasmarci (bravo, ma senza quel guizzo in più...), ma le sezioni strumentali sono di alto livello senza dubbio, tra cambi di tempo frequenti e slanci solisti perfettamente calibrati e non auto celebrativi. Brillante pure l'intro di “Nothing, everything” ricco di tecnica e fantasia. Qualche coro a ricordare Squire e soci, ma anche intuizioni vicini alla fusion, nella sezione centrale, davvero ben riuscite.
“The breaking of the World” ci offre un gruppo in forma ed i risultati si sentono eccome.
Magari un ottimo lavoro per i progsters più “progressisti” (ed aperti al nuovo, più personale, corso), forse solo “buono” per i più reazionari (legati ai suoni di “If” e “Cor cordium”), oppure anche “appena sufficiente” od addirittura “scadente” per gli oltranzisti dell'originalità prima di tutto? A voi la sentenza...



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Valentino Butti

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