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DBA (DOWNES BRAIDE ASSOCIATION) Suburban ghosts Cherry Red Records 2015 UK

Sappiate, tanto per cominciare, che questo non è affatto un gruppo prog, nonostante compaia il nome di Geoffrey Downes, attuale tastierista degli storici Yes. Per quanto riguarda il cantante Christopher Braide, invece, questi è stato songwriter e produttore di personaggi tipo Beyonce, Lana del Rey, Britney Spears, Christina Aguilera et similia. La musica, come gli stessi interessati ammettono, verte sul technopop, la musica elettronica e gli anni ’80 in generale. La fortuna è che quantomeno la masterizzazione di Mike Pietrini non evidenzia dei suoni di plastica che tanto sembravano piacere durante quel periodo.
Probabilmente leggere di questo album (il secondo, per il duo) a molti potrà sembrare uno scherzo. E non si potrebbe dar loro torto, perché la batteria elettronica sempre uguale a se stessa dell’iniziale “Machinery of Fate” sa tanto di pubblicità ottantiana con musica degli Ah-ha. In effetti, l’unico motivo per cui il lavoro in questione passi attraverso certi canali sembra essere dovuto solo ed esclusivamente a Downes, che per l’appunto nella vita fa (anche) il tastierista prog. È davvero difficile riuscire ad immaginare altro. Fermo restando che un artista dovrebbe sempre essere libero di esprimere concetti che magari si distanziano parecchio dalla sua produzione corrente – nessuno obbliga la gente ad ascoltare per forza –, il volere insistere ad inquadrarlo nel settore “progressivo” sembra una mortificazione al personaggio stesso, che non riesce a liberarsi in nessun modo dall’abito che gli è stato cucito addosso. Ma a capirlo dovrebbe essere lui per primo, seguito a ruota dalla casa discografica.
Se proprio si vuole parlare dei brani, dimostrando così di non aver dato solo un ascolto superficiale per via dei pregiudizi, si potrebbe dire che “Suburban Ghosts – parts 1 and 2” presenta un buon assolo di chitarra nella seconda parte, che non è dato sapere chi lo suoni, visto che la presenza di Dave Gregory è indicata solo su “Dreaming of England”, assieme al bassista Lee Pomeroy. Magari un ascolto lo si potrebbe dare anche a “Vanity” o a “Time Goes Fast”, mentre la conclusiva “Finale” sembra in tutto e per tutto un nostalgico ricordo delle spensierate serate eighties. Beh, di sicuro questo sembra un approccio molto più professionale rispetto ad allora, che in radio dovrebbe comunque andare bene.
Le tematiche dell’album vertono sul senso di isolamento e solitudine che si avverte soprattutto nelle periferie delle piccole città, partendo dalle esperienze personali di vita. In questa ottica, le sonorità acquisiscono un significato decisamente diverso. Ma l’audience va ricercata in altri lidi, decisamente più commerciali.



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Michele Merenda

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