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LOOMINGS Everyday mythology AltrOck 2015 ITA/SVI

i Loomings sono un nuovo combo della scuderia Altrock. Non ci possiamo quindi meravigliare se il loro disco d’esordio sia un prodotto particolare, dalla fruibilità non certo immediata e che richiede un livello di attenzione nell’ascolto piuttosto marcato. La band è capitanata dal polistrumentista Jacopo Costa, italiano trapiantato a Strasburgo, e si avvale di una struttura piuttosto particolare con l’utilizzo di tre vocalist, di chiara ed evidente impostazione classica, Maria Denami, Ludmila Schwartzwalder e Benoît Rameau. Oltre alla moltitudine di incroci vocali salta all’orecchio un uso massiccio di percussioni, governate dallo stesso Costa e da Enrico Pedicone. A completare l’ensemble il bravo bassista Louis Haessler.
Dopo numerosi ascolti, e per numerosi intendo almeno dieci, mi sono ritrovato a domandarmi cosa contenesse questo disco. Ma se lo spirito di una recensione è far comprendere i contenuti dell’oggetto che si recensisce, trovarsi di fronte a certi dubbi, mi ha un po’ spaventato e ho provato, allora, a pormi in maniera più distaccata possibile da un ascolto che, invece, diveniva di volta in volta sempre più coinvolgente.
Mano a mano che i vari aspetti strutturali, melodici e dinamici dell’album si dipanavano, al pari, anche le idee iniziavano a schiarirsi e a far aprire sprazzi decisamente più chiari. Delle undici tracce trovavo parti di accesso quasi immediato, penetrante in maniera quasi prepotente e intendo, ovviamente “Sweet Sixteen”, brano che ben utilizza le follie pop / Fifty style di Frank Zappa, compresa la finta semplicità strutturale o lo pseudo funk “In a black key” con un lavoro di basso e vibrafono davvero azzeccato. Ma trovavo anche parti decisamente ostiche e sviluppate su piani che si intersecano in maniera piuttosto maligna e qui penso a certi piccoli frammenti dell’opener “Keywords” e, ad esempio alle forme vocali di “Black (and green and red)” il cui testo contiene anche divertenti citazioni della “Big Leg Emma” zappiana e una di “Black Dog” dei Led Zeppelin. Poi, a tratti, i movimenti e gli intrecci si placano e le zoppe e asimmetriche tessiture si buttano sul divano dell’ozio e della noia e aspettano, aspettano, sospirando, pensiamo all’avvio di “The things that change” o alla parte centrale di “Lockjaw (a mutand dog)”, dove tutto si muove con la lenta accuratezza di chi rovista nella pattumiera in cerca di chissà quale improbabile leccornia e, da questo rovistare placido e lutulento, ecco saltare fuori una sensazione nuova, un’arrotondata sequenza melodica che sa di inedito.
E tra interessanti vapori canterburyani, frecciatine zappiane, grovigli reiterati e zeuhliani e alla Gentle Giant, gli accenti si spostano, la punteggiatura svanisce, la sintassi diviene cosa personale e cucita ad arte su drappi stesi al sole e trattenuti per una piccola molletta. E alla fine viene fuori la vera anima del disco quella dove il c’è il divertimento, dove ci sono gigioneria, kitsch, il volutamente difforme, il freak, la nota malata e ricercata scientemente per essere malata. In questi frangenti, spesso, le cose possono apparire forzate, ma tutto è debitore dello sforzo compositivo. Ogni singolo ribollir di note è quello che deve essere, non è la composizione ad essere alternativa, è l’ascoltatore che si pone verso di essa in quel modo. Questo perché chi ascolta non conosce il gesto, non sa della portata del piglio artistico, semplicemente sente la vibrazione che corre dal timpano allo stomaco e ancora più giù verso le viscere, che sobbalzano in un continuo stordimento. Ed è proprio attraverso, o per mezzo, di questa ironia che l’opera riesce a prendere forma, divenendo e mutando sé stessa dalla semplice idea, alla forma compiuta. E questo disco è forma compiuta, ci vuole un po’ a comprenderlo, lasciatelo lavorare, fatevi avvolgere, ammaliare, dategli tutte le possibilità che merita un lavoro di grande e profonda professionalità.



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Roberto Vanali

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