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ZARTONG Zartong DOM 1979 (O-Music 2015) ARM

Quando, anni fa, una volta scoperti e (più o meno) approfonditi i principali nomi storici del Prog, cominciai ad addentrarmi tra i nomi più oscuri all’interno dei vari cataloghi di rarità su vinile, alcune entità musicali esotiche stuzzicavano inesorabilmente la mia fantasia. Tra i miei sogni (allora) proibiti c’erano i groenlandesi Sume, i Fragil in Perù, i Guruh Gipsy in Indonesia… e c’erano anche gli Zartong, unico gruppo Prog armeno, almeno fino a qualche anno fa.
L’unico album degli Zartong venne registrato in realtà in Francia nel 1978 e pubblicato pochi mesi dopo dalla piccola etichetta DOM, senza incontrare particolare successo. Una ristampa su vinile in edizione limitata avvenuta pochi anni fa è stata l’unica occasione per entrare in possesso di questa musica, a parte pagare una paccata di soldi per l’originale, ovviamente. Finalmente una ristampa su CD ci consente di ascoltare quest’album rimasto per me fino ad ora misterioso (anche facendo finta che non esista la possibilità di ascoltarselo per vie… traverse).
La realtà dei fatti che ci troviamo di fronte ascoltando quest’album può essere in parte deludente, trovandoci alle prese con un disco registrato così così e dai connotati musicali che miscelano lo space rock e il folk caucasico, con melodie che spaziano tra le invocazioni mistiche e bizzarri momenti danzerecci.
Troppo severo?
Sì. Ricominciamo daccapo, dunque.
La registrazione e produzione è un po’ artigianale, come detto, e fin qui non ci possiamo fare molto; sarebbe stata accettabile se fosse avvenuta realmente in Armenia. Dal punto di vista musicale invece il disco è molto personale e caratteristico, ricordando un po’ i franco/turchi Asia Minor, benché gli Zartong siano meno sinfonici, i Gunesh Ensemble e, per le parti strumentali, i primissimi Twelfth Night. Sono quattro i musicisti degli Zartong: Richard Tanelian - batteria, Lorys Tildian - kemenche e voce, Franck Tildian - basso e voce e Stepan Akian - santour, synth e voce. Il suono che questi ci propongono acquista sonorità particolari grazie appunto all’utilizzo del kemenche, una sorta di violino mediorientale, e del santour, in pratica un salterio; strane melodie di tastiere e un uso del basso molto particolare e pulsante contribuiscono a una miscela sonora che rende questo disco in verità molto particolare e rispettoso della particolarità etnica del gruppo. Timidi accenni fusion e zeuhl caratterizzano altresì la musica dell’album.
L’album si struttura su due lunghe suite, suddivise in 13 brevi titoli, in cui il cantato in lingua madre interviene in maniera non invadente sulle melodie che, come detto, oscillano tra le invocazioni mistiche, temi folk più gioiosi e canti tradizionali dai toni più lirici ed enfatici.
Il risultato finale, a conti fatti, non soddisferà di certo tutti; solo se siete avvezzi ad interpretazioni del Prog meno mainstream ed influenzato dalle diverse culture potete pensare di apprezzare proposte come queste che, ad ogni modo, è sì importante dal punto di vista culturale ma soffre secondo me un bel po’ al confronto con proposte simili, tra cui quelle sopra menzionate.



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Alberto Nucci

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