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RÊVERIE Gnos furlanis: Il timp dal sium DownBridge Publishing 2015 ITA

Il gruppo di Valerio Vado ci ha sempre abituati a scenari dal respiro internazionale, esordendo con un album Shakespeariano (“Shakespeare, la donna e il sogno” del 2008) ed arrivando ad abbattere qualsiasi frontiera artistica e culturale col successivo “Revado” (2011), album stilato in doppia versione, una in italiano e l’altra in esperanto, lingua quest’ultima, come saprete, studiata perché divenisse strumento di comunicazione universale fra i popoli. Appare quindi un po’ strano ed inaspettato ai miei occhi questo ritorno alle radici, in terra friulana. Non ricordo chi lo abbia detto, ma deve essere proprio vero che il viaggio più bello è quello che ti riporta a casa. Si torna arricchiti del prezioso carico dell’esperienza ma con lo spirito sollevato dalla gioia di riabbracciare quell’angolo di terra a noi più caro, che racchiude la nostra essenza più profonda e che non riusciremo mai a ritrovare altrove, dovessimo anche vivere altre mille vite ancora e mille e mille altre esperienze. Il legame con la propria terra è più profondo di quanto noi stessi riusciremmo mai ad immaginare.
Ci spiega Valerio Vado (chitarre, mandolino, effetti, tastiere, basso acustico, bass pedals, percussioni e voce) che il “Tempo del sogno” (il timp dal sium, in friulano) secondo gli aborigeni australiani è una dimensione interiore fatta di immagini e simboli ereditati dai nostri antenati ed il senso della nostra esistenza è racchiuso qui. La lingua che domina questa nuova opera è quindi il friulano, idioma caro all’autore perché parlato in famiglia e indelebilmente legato ai suoi ricordi più intimi. Sono stati scelti i versi di alcuni poeti friulani, musicati ad arte, ad accompagnare l’ascoltatore in un vero e proprio percorso spirituale ed artistico che lega l’uomo al tempo, vissuto in dimensioni diverse, quella circolare, quando si riflette nella bellezza della ciclicità degli eventi naturali, quella sospesa, quando cerca nell’amore verso il prossimo la sua completezza allorché percepisce la propria estraneità nei confronti della natura, quella lineare, quando capisce che la storia è una concatenazione di eventi spesso nefasti, segnati da errori ed orrori ed infine ecco la riscoperta del “tempo del sogno”, quello spazio interiore che sintetizza tutta la nostra esistenza e in cui si riscopre infine la propria unità perduta con la natura.
Non è facile spiegarlo a parole, per quanto le note sul progetto che possiamo leggere nel corposo booklet siano suggestive e ben fatte, ma la musica sicuramente riuscirà a rendere concreta questa specie di incantesimo e a farla arrivare tangibilmente ai nostri sensi. Tutte le caratteristiche e le conquiste artistiche perseguite nel passato dal gruppo trovano infatti in questa opera una nuova sintesi. Le tantissime atmosfere che attraversiamo, i tantissimi stili, l’unione di elementi di ispirazione così diversa, antichi e moderni, classici e rustici, acustici ed elettrici, sono disseminati in modo molto vario in questa collezione di ben diciotto pezzi a delineare un racconto entusiasmante che trova la sua coerenza nel ricorrere della lingua friulana. Si tratta di tantissime visioni illuminate da sentimenti limpidi e spontanei e disegnati da musiche sognanti e cangianti. Assaporiamo diffusamente una sinfonicità dolce e leggera, mai ingombrante ma sempre fresca, bucolica a volte, impalpabile come la rugiada che luccica finissima sopra l’erba fresca al mattino, gli umori sono quelli del bosco, scuro ma attraversato da innumerevoli dardi di luce che vibrano allo stormire delle foglie.
E’ proprio un sentimento di gioia quello che proviamo in “Maravèa” (Meraviglia), cantata dalla consueta e squillante voce di Fanny Fortunati che ha un fascino tutto suo e senza tempo, impreziosita da suoni d’arpa e di flauto che inanellano note che ricordano la musica antica. In “Cansoneta” emergono suggestioni Genesisiane con colorazioni inconsuete date da tonalità prevalentemente acustiche, come nello stile del gruppo che ama intessere arrangiamenti morbidi ed avvolgenti. Da notare poi, in questo particolare brano, i versi di Pier Paolo Pasolini. Alcune speziature, come quelle di “Estât” ci riportano più direttamente al precedente album con i suoi ritmi e le fragranze quasi orientali in cui si innesta una melodia cantabile che sprigiona ottimismo. Rilucono gli arpeggi della chitarra, il flauto ed il coro sul finale che ricorda un po’ “Adiemus” di Karl Jenkins. In “Scjarazula marazula” mi è invece sembrato di percepire qualcosa dei Malicorne, con i ritmi del tamburo ed il clarinetto ombroso di Alberto Sozzi in uno stile globale che ricorda un po’ quello dei Minimum Vital di “Sarabandes”. In “Il Vint”, procediamo un po’ a saltelli visto che i pezzi sono tantissimi, le melodie minimalistiche sembrano un po’ quelle di Wim Mertens, con elementi tastieristici (con tanto di Mellotron) vividi e classicheggianti sull’onda di una base ritmica discreta e delicata ma assolutamente mai monotona.
Ci tengo a segnalare “Putta nera, ballo furlàno”, imbastita su un motivetto barocco da festa popolare, a ritmo di tamburo, dalle tonalità spente e dai caldi arpeggi. Ugualmente suggestiva è la successiva “Agânis”, vellutata e notturna, profondamente Oldfieldiana. Anche la voce emana uno strano tepore e, non so spiegarmi perché, profuma quasi di fado per la sua dolce malinconia. Sullo sfondo campeggiano poi tastiere dagli impasti ancora una volta Genesisiani, connubio questo decisamente particolare, devo dire. Passerei in questa veloce disanima a “Forum Julii” che apre la terza parte dell’album, quella dedicata al “tempo lineare”, pezzo carico di suoni con una base elettrica sostenuta. Ed infine cito “Partigians”, altra composizione dalle cadenze popolari fitta di corde pizzicate ed arpeggi, versi veloci attraversati dal flauto agile dell’ospite Lello Narcisi in un insieme frizzante dai sapori antichi che ricorda quasi qualcosa di De Andrè. Il brano muta gradualmente nelle sue tonalità timbriche e si impreziosisce di elementi cameristici con effetti davvero notevoli e particolari. Così come il primo brano è un “Prologo”, quello di chiusura si configura come un “Epilogo” in cui concettualmente tutto trova il suo compimento nell’immagine già illustrata del “tempo del sogno”. Come ad amplificare l’aspetto mistico di questa visione è stata scelta una forma polifonica per soli cori che rimandano direttamente alla musica sacra.
Spero che abbiate almeno intuito la ricchezza di questo album, sia a livello puramente musicale sia a livello concettuale. C’è molto qui dentro, qualcosa di magico e nascosto, qualcosa da scoprire e che va oltre ogni apparenza, qualcosa che sboccerà nel vostro cuore inevitabilmente, al di là del merito artistico, indiscutibile, dei Rêverie che vedo prima di tutto nell’incredibile sincretismo che da sempre comunque caratterizza le loro produzioni. Progressive Rock, certo, ma anche molto altro.


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Jessica Attene

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