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CORPO I & II Lizard Records 2016 ITA

Ultimamente, molte (troppe) recensioni cominciano con: “C’era una volta…”. Un incipit che dovrebbe far riflettere su diverse questioni. Nel frattempo che ci si rimugina su, si può iniziare a dire che i Corpo dei fratelli Calignano vengono riesumati – scusando il gioco di idee un po’ macabro – dalle vicende dimenticate di una comune, ubicata all’interno di una villa di Leuca sul finire degli anni ’70. In giro a suonare per l’Italia e l’Europa, la band salentina fa parte di un sottobosco davvero nascosto, che tra la fine di quel decennio e gli inizi di quello successivo sarebbe sparito senza lasciar traccia di sé. Forse, il problema riguardante quel particolare periodo è stato pensare che oramai si sapesse tutto quanto c’era da sapere, con il punk, la new wave e – in Italia – i nuovi cantautori che avanzavano. Da questo punto di vista, risulterebbe essere invece uno dei momenti più oscuri ed ignoti, anche alla luce di quanto riproposto dai Calignano tramite la Lizard. Brani strumentali eseguiti all’epoca, quasi perduti, che volevano essere definiti come vero e proprio avant-progressive.
Occorre mettere in chiaro che non si tratta di nulla da definire imperdibile (anzi…), così si evitano inutili aspettative nel lettore. Diciamo, però, che tali brani consistevano in sperimentazione, psichedelia, folk acido, tutti elementi che genericamente si facevano unicamente confluire nel teutonico filone del kraut-rock, col quale… non si sbagliava mai! Detto questo, l’ipotetico primo album sarebbe composto da cinque brani senza titolo; il primo pezzo serve a farsi un’idea, con un’attitudine sicuramente scanzonata, piena di entusiasmo, pieno di scroscianti distorsioni. Da segnalare il quarto brano, carico di feedback a cui seguono divagazioni “cosmiche”, e la meditazione spaziale del quinto. La seconda parte sembra composta da degli scherzi, con l’eccezione de “Il giorno della mia morte”, sorta di blues lisergico e distorto all’inverosimile che potrebbe ricordare un po’ il Tonny Hill solista (ma anche alcuni brani pubblicati postumi con i suoi Hight Tide). “Tympanon”, composto esclusivamente da percussioni che sembrano assemblate con pentole e fustini del detersivo, forse potrà suonare per le orecchie di qualcuno come “pittoresca ed inedita cultura vintage”, ma ad un ascolto odierno non suona più di ciò che è stato descritto poco sopra (migliora comunque sensibilmente quando cominciano ad essere percossi anche i piatti).
Bene, questo è quanto. Francesco (chitarra, basso) e Biagio (tastiere, batteria), supportati dal basso del fratello Mario sul primo pezzo, fanno sapere al mondo cosa combinavano in quegli anni. Sta ora al mondo stabilire se ciò può essere interessante oppure no. Il parentado fa però sapere che non si è trattato solamente di un’isperata operazione nostalgica, perché a breve si tornerà sul mercato con delle composizioni inedite, create di sana pianta. E questo, oggettivamente, potrebbe apparire già più interessante.



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Michele Merenda

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