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LANDSKAP II autoprod. 2014 (Black Widow Records 2015) UK

Il gruppo multietnico Landskap, fondato nel 2012 a Londra e che ha individuato proprio nella capitale britannica la propria sede operativa, sviluppa ulteriormente quel misto di hard-rock e doom che aveva caratterizzato l’esordio nel 2014. In realtà i due album sono stati realizzati lo stesso anno e poi inseriti online nel proprio bandcamp per essere scaricati gratuitamente. “I” è stato poi stampato ufficialmente in vinile dalla Iron Bonehead (si definiscono infatti una band da vinyl sound), a cui ha fatto seguito il successivo lavoro, pubblicato anche in CD dalla nostrana Black Widow. La mistura, lo si sarà capito, si confà perfettamente con le produzioni tipiche dell’etichetta genovese, riportando alla mente durante la prova presa in esame anche compagni di scuderia come i norvegesi Arabs in the Aspic ed i meno conosciuti Seid, gli italiani Blue Dawn e gli inglesi Crowned in Earth.
Gruppo multietnico, si diceva. Il nome stesso, difatti, è un termine fiammingo molto simile all’inglese Landscape (paesaggio), così come è fiammingo Frederic Caure, bassista dei SerpentCult, oltre ad essere belga (dalle chiare origini greche) anche Kostas Panagiotou, tastierista dei decisamente funerei Pantheist. Sembra che dal canto suo George Pan, chitarrista dei Father Sun, sia ateniese, lasciando il batterista Paul Westwood (Fen) ed il cantante Jake Harding (Dead Existence) come gli unici musicisti d’Albione. Un mix decisamente “pesante”, che però si scrolla l’eccessiva zavorra delle band d’origine e dà vita ad un progetto radicato per la sua vocazione tra la fine degli anni ’60 ed il decennio successivo. In questa uscita, la voce di Harding viene un po’ da tutte le parti indicata come una specie di tributo a Jim Morrison e ad essa si accoda il resto della compagnia, facendo cenno ai Doors più ruvidi e cadenzati, portando così alla mente i ben più recenti The Flying Eyes. Certo, se si menzionano determinate ritmiche, non si può non tirare in ballo i soliti Black Sabbath, anche in vista dei nomi sopra citati; l’iniziale “Leave It All Behind” dice già tutto, fondendosi bene con il bosco cupo e nebbioso messo in copertina. Ma a differenza del precedente lavoro, dove gli assoli erano consacrati in toto sull’altare di Tony Iommi, qui qualcosa cambia: la parte strumentale sembra infatti rifarsi agli Astra, cosa che crea sicuramente un effetto non standardizzato. E l’atipicità risuona anche nella seguente “South of no North”, con il suo intermezzo simil-jazzato e l’incidere che stavolta somiglia davvero alla storica band statunitense, autrice di “Riders on the Storm” e “Roadhouse Blues”.
È possibile rintracciare vecchi richiami anche e soprattutto su “Through the Ash”, il cui riff durante le strofe ricorda quella “Crossroads” di Robert Johnson che ha fatto la fortuna di parecchie compagini durante gli anni a venire (Cream su tutti), anche se la seconda parte, invece di ricordare la solita impostazione vocale di Jim Morrison, sembra lentamente passare il testimone a Ian Astbury dei The Cult, prima che approdassero definitivamente al versante heavy rock. Tra le pecche presenti, c’è da riportare il suono del Hammond che sarebbe dovuto essere molto più incisivo e che invece viene messo in secondo piano dalla ritmica tonante e martellante della chitarra. Incisività che in buona parte viene recuperata nella strumentale “Landskap Theme”, prima di passare a “Tomorrow’s Ghost”, con ancora uno stile vicino a Ian Astbury sugli scudi, forse il migliore assolo di chitarra dell’intero lavoro (che da questo punto di vista risulta un po’ più avaro, se confrontato col predecessore) ed un finale molto intenso. Chiusura con la psichedelia heavy e strumentale di “Lazy Sundae”.
Conclusione: di prog manco a parlarne, ma questo si era compreso. Vi sono però delle sonorità vintage che in qualche modo, nel tempo, con esso si sono spesso e volentieri contaminate, ottenendo di sovente risultati piacevoli. Il lavoro in questione è discreto ed un paio di ascolti faranno sì che verrà voglia di risentirlo spesso. Prodotto finale sicuramente apprezzabile (non certo imperdibile a qualsiasi costo) e comunque i Landskap danno la sensazione di poter crescere ulteriormente e piazzare per il futuro un paio di lavori di cui poter parlare in ben altri termini.



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Michele Merenda

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