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THE ENID Dust Operation Seraphim 2016 UK

Per la terza volta in pochi anni torno a parlare degli Enid. La cosa, per quanto mi riguarda, è sorprendente. Non perché sia io a farlo (o forse si), ma dopo tre album di studio di materiale completamente originale, altrettanti con rielaborazioni di vecchi brani, tre album dal vivo, poi dvd, blu-ray, concerti e perfino un lavoro solista di R. J. Godfrey, chiunque sarebbe sorpreso del modo in cui gli Enid siano stati capaci di trovare un nuovo spazio nell'ingrato mondo del rock progressivo. La differenza, ora, sta nel fatto che il nuovo album rappresenta un punto di svolta. Ne sono certo, più per ragioni evidenti che per un mio inesistente intuito. Innanzitutto, "Dust" è l'annunciata conclusione di una trilogia, e rappresenta quindi il punto d'arrivo di un percorso musicale pianificato. Oltre a questo, l'età e la malattia di R. J. Godfrey lo hanno spinto ad annunciare l'abbandono delle esibizioni dal vivo con la band, che proseguirà l'attività in autonomia (ad eccezione di eventi particolari), mentre il compito del tastierista si "limiterà" alla composizione e alla registrazione di nuovi lavori. Lasciando da parte il futuro, quello che si usa fare alla fine di un ciclo è tirare le somme.
Dal punto di vista musicale, la trilogia appena conclusa è sorprendente. La qualità media è stata alta ma non uniforme, con la partenza in sordina di "Journey's end", discreto ma ancora incerto verso la direzione da prendere, il picco spettacolare di "Invicta" e il prevedibile collocarsi nel mezzo di "Dust". Un punto di svolta è stato senz'altro l'ingresso in formazione, a cavallo tra "Journey's end" e "Invicta" di Joe Payne (anche lui al momento inattivo per problemi di salute), il quale ha definitivamente permesso al gruppo di sbilanciarsi verso uno stile compositivo che valorizzasse le sue notevoli doti vocali, con buona pace dei vecchi fan che ritengono i "veri" Enid solo quelli dediti alla musica strumentale.
"Dust" riprende in buona parte lo schema musicale di "Invicta", esasperando ulteriormente il nuovo stile sviluppato dal gruppo. "Born in the fire" inizia con una melodia ripetuta, sottolineata dai timpani, la voce che sussurra e poi si fa strada più alta insieme alla musica incalzante, finché l'orchestra sembra scatenarsi. È solo un'illusione perché c'è ancora un delicato intermezzo melodico che fa da preludio all'esplosione strumentale ed al resto del brano, un concentrato di emozioni di oltre sette minuti in cui gli strumenti elettrici si fondono alla perfezione con l'orchestra sintetica di Godfrey. "Someone shall rise" è ancora un brano carico di melodia, costruito su saliscendi epici della voce e dei cori, struggente all'eccesso e ovviamente bellissimo. Il resto dell'album mantiene un buon livello ma conferma la tendenza a piazzare le frecce più appuntite all'inizio. Rimane quindi una mezz'ora di musica totalmente devota alla voce di Joe Payne, forse per questo appena più anonima, tra barocchismi, teatralità e rock, che è sempre presente e contribuisce a creare la trama sinfonica tanto quanto i sovrabbondanti arrangiamenti orchestrali. Emblematica la conclusiva "Heavy hearts", una ballata ritmata e cinematografica che sarebbe stata perfetta in un album dei Queen degli anni '90.
Non so se gli Enid riusciranno a proporre qualcosa di nuovo o diverso in futuro, non credo sia importante e forse neanche tanto auspicabile. Lo scopriremo negli altri due episodi della nuova trilogia inaugurata con "The bridge". Gli ultimi anni sono stati evidentemente dedicati alla ricerca della perfezione formale nella composizione, nell'esecuzione e nello stile, con effetti che rendono superfluo qualsiasi tentativo di definire il rock sinfonico e il rock progressivo, del quale gli Enid costituiscono di fatto un sottogenere a parte. Il risultato ottenuto, sembra assurdo, può non piacere, come può non piacere la tendenza all'eccesso, al pacchiano e al romanticismo estremo. La verità, a mio avviso è che gli Enid sono stati capaci di trasformare in punti di forza questi ipotetici difetti, realizzando qualcosa che naviga tranquillamente tra il bizzarro e lo spettacolare. Considerando che stiamo parlando di una band che festeggia i 40 anni di una carriera ripresa in mano e rivoluzionata in meno di 10 anni, direi che possiamo solo ascoltare e meravigliarci.



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Nicola Sulas

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