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LA FABBRICA DELL'ASSOLUTO 1984: l’ultimo uomo d’Europa Black Widow 2015 ITA

Non è per nulla un album facile, questo esordio della band romana. Opera prima che sta riscuotendo ottimi riscontri, ma non si sa se le opinioni artistiche siano davvero ben ponderate oppure si segua il solito filone del facile entusiasmo, che poi – purtroppo per i musicisti coinvolti – porta ad un altrettanto rapido ridimensionamento e quindi in un tanto comodo quanto semplicistico dimenticatoio. Hard-prog sinfonico in stile anni ‘70 di chiarissima matrice tricolore, che desta immediatamente l’interesse soprattutto di chi quegli anni non li ha vissuti e di conseguenza va molto più facilmente in sollucchero per qualsiasi cosa suoni in maniera analoga. Ma in realtà ci sarebbe qualcosa di più, che purtroppo non è stato sufficientemente messo in evidenza. Come suggerisce il titolo dell’album, infatti, il prodotto in esame è l’estrinsecazione di un concept basato sul famoso romanzo “1984” di Orwell, a sua volta debitore de “Il mondo nuovo” (1932) di Aldous Huxley (di cui lo stesso Orwell fu allievo). Se questo album fosse un romanzo, si potrebbe dire che gli autori hanno trovato l’incipit perfetto: “I due minuti dell’odio”, cioè la manifestazione presso Piazza della Vittoria dove si incontrano i due protagonisti, si apre con il narrato inappellabile di Luca Violini sulle voci della folla, a cui fa seguito un approccio strumentale aggressivo dove l’organo Hammond di Daniele Fuligni detta… la propria dittatura. Con un attacco così non si può non proseguire, indipendentemente da cosa possa esserci dopo. Esattamente come avverrebbe leggendo un libro.
Il punto di riferimento che viene subito in mente è quello dei Museo Rosenbach, soprattutto dopo che nella seguente “4 aprile 1984” attacca la voce acuta e ben impostata di Claudio Cassio. Da qui in poi tutto scorre concatenato per un tratto davvero lungo, come se i vari brani fossero in realtà un unico pezzo. Un’arma a doppio taglio, perché se prese singolarmente le canzoni risulterebbero decisamente ridimensionate e frammentarie. Il punto focale è che questo lavoro può essere davvero apprezzato se non si ha per lo meno un’infarinatura dell’opera seminale di Orwell; i testi sono spesso e volentieri delle frasi ad effetto che, se non si conosce il testo, potrebbero suonare come quei pensieri pretenziosi e volutamente criptici proprio degli anni ’70, allora giustificati (in parte) da un clima di fermento e di protesta verso le convenzioni. In un certo senso, visto quanto poco sopra detto, anche qui è così; Oceania (formata da Regno Unito, Irlanda, Americhe, Australia, Nuova Zelanda e Africa centromeridionale) è governata dal Socing, sistema politico socialista erede del laburismo inglese (per quanto Orwell fosse laburista, non mancava di evidenziarne le contraddizioni) che tanto sembra somigliare ai sistemi di controllo psicofisico elaborati dal nazismo e dallo stalinismo. È un mondo in cui l’umanesimo viene cancellato a favore di una neo-lingua sciatta, elementare, all’interno della quale è impossibile solo pensare certi argomenti. Una visione a suo tempo terribilmente profetica, i cui slogan sono riportati in “Chi controlla il Passato controlla il Futuro. Chi controlla il Presente controlla il Passato”, oppure in “O’Brian” (La guerra è pace; la libertà è schiavitù; l’ignoranza è forza), nell’opera originale un funzionario doppiogiochista del Partito Interno che in realtà fa parte della Psicopolizia, entità che sembra volteggiare lungo tutto l’album. Così, dopo “Bispensiero” (nella realtà ispirato a dei concetti leninisti), in cui si nomina anche il ribelle Goldestein contro cui era stata organizzata quella famosa giornata dell’odio, “La Ballata di Prolet” (ambientata nei bassifondi del sottoproletariato, irretito con panem et circenses) viene rischiarata nella sua oscurità dalla voce di Cassio che – volutamente? – sembra far rivivere proprio lo storico “Zarathustra” (1973), sfociando come degna continuazione nei serrati controtempi de “L’occhio del teleschermo”, in cui bisogna ricordarsi di essere imperfetti e quindi non ci si può difendere da nulla perché nella realtà la personalità dell’individuo non esiste.
“Giulia”, cioè il nome della dissidente che per amore è riuscita a portar dalla propria parte il funzionario Winston (a proposito: niente atti sessuali che non siano indirizzati alla procreazione!), è una ballata prog sostenuta e struggente, seguita da “Lo sguardo nel quadro”, debitrice per la parte strumentale del Keith Emerson impegnato in “Tarkus”. La suite “Processo di omologazione” e “La stanza 101” pagano invece dazio anche a Il Balletto di Bronzo, registrando una decisa impennata. Winston, tradito ed imprigionato, viene sottoposto alla tortura del bispensiero nella stanza 101 e resiste a ben tre tentativi (cioè i tre movimenti della suite). Bella la chitarra di Daniele Sopranzi finalmente in primo piano, mentre il protagonista alla fine cede e tradisce a sua volta Giulia, impotente di fronte alla visione dei topi che minacciano di sbranarlo. Da qui la frase: «Non fatelo a me, fatelo a lei».
“La canzone del Castagno” vede la presenza di Pino Ballarini de Il Rovescio della Medaglia, per quello che è l’incontro dei due attori principali nella caffetteria Bar del Castagno, in cui entrambi ammettono di essersi traditi l’un l’altro. Così, mentre Winston ha oramai subito l’irreversibile lavaggio del cervello e ammira un manifesto del Partito – come sembra sostenere la banda musicale di Monopoli che commenta col suo breve intervento la finale “Amava il Grande Fratello” –, viene raggiunto a tradimento da un proiettile e muore, accompagnato dal pianoforte triste che chiude i giochi e l’ascolto. Anche se la nota finale, curiosamente, sembra potersi ricollegare a quella che aveva aperto l’album…
Un prodotto che, come è stato evidenziato, è molto più complesso di quanto si potrebbe pensare, fin dalla copertina ad opera di Cesare Modesto. Lo si ribadisce: per comprenderlo appieno e quindi dargli il giusto valore occorre accostarlo allo scritto di Orwell, a cui è indissolubilmente legato. È questo un punto di forza oppure si tratta di una trovata cervellotica che ne ridimensiona i contenuti artistici, privandolo di oggettività? Un bel dilemma. Ma la possibilità di scegliere è anche tutto questo, altrimenti ci si affiderebbe ciecamente… ad un Fratello Maggiore capace di scegliere (e vivere) al posto dell’umanità stessa.



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Michele Merenda

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