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MACROSCREAM Macroscream Fading Records 2016 ITA

A quattro anni dall'autoprodotto album d'esordio Sisyphus, i Macroscream pubblicano il loro secondo lavoro in studio, omonimo, uscito nell'aprile 2016 sotto il marchio Fading Records. Sulla scia del precedente disco, questo vede coinvolta la medesima line up di allora, fatta eccezione per l'introduzione di un cantante di ruolo, Luca Marconi. Al suo fianco ritroviamo Marco Pallotti alla batteria, Tonino Politanò alla chitarra acustica ed elettrica, Gianpaolo Saracino al violino e Davide Cironi allo Hammond, mellotron e minimoog. A muovere i fili dall'alto e a contribuire in modo pratico con basso, chitarra acustica, mandolino e percussioni, il leader e compositore Alessandro Patierno, lo stesso che in “Sisyphus” si fece carico anche delle parti vocali.
Il disco che il sestetto romano ci propone attinge ai classici stilemi della musica progressiva anni settanta a noi ben nota, contagiata in più di un'occasione da un sound più vicino a quello dei giorni nostri e impreziosita da tinte melodiche tipiche di altre culture, grazie all'ausilio di strumenti particolari come la cornamusa irlandese, il didgeridoo e le tabla indiane. Se a questo aggiungiamo la presenza di molti musicisti ospiti, ne viene fuori un lavoro eterogeneo e ricco di tante sfumature.
I sei brani che compongono il disco risultano tutti piuttosto lunghetti (soprattutto quello d'apertura – “Mr. Why” - e quello conclusivo – “Impenetrable Oak Bark” -) e ricchi di spazi vocali molto ampi. Si scivola continuamente da un rock sinfonico ad un pop più attuale, da eleganti parentesi jazz rock si viene catapultati improvvisamente nel più giulivo funky. E poi ancora, proprio mentre ci si adagia in comode e baroccheggianti sonorità molto vicine a quelle del gigante gentile, tutto d'un tratto l'atmosfera s'incupisce e i riff diventano più graffianti e riconducibili al rinomato filone di rock sperimentale tedesco, seppur in maniera non sempre fluida e compatta.
Lo spunto e l'evidente ammirazione della band per il Krautrock, si evince non solo da caratteristici richiami musicali ma anche dalla scelta grafica adottata per la cover dell'album che rimanda al logo della celebre etichetta discografica Ohr, madre di alcuni fra i più grandi capolavori teutonici.
Non reputo necessario soffermarmi a descrivere ogni singola traccia del disco, dal momento che ognuna di esse gode più o meno delle caratteristiche appena esposte, tanto che si fatica un pochino a distinguere un brano dall'altro, ma una particolare attenzione mi piacerebbe rivolgerla ad “Unquiet”. Gli strumenti, che presi singolarmente spiccano in maniera raffinata, sono in perfetta simbiosi fra loro e tessono trame melodiche dal sapore canterburiano con dolci accenni folk che il violino delicatamente riproduce. Questa traversata lunga otto minuti vive una breve tempesta nella parte centrale, in cui i suoni s'induriscono e cambi e pause di ritmo donano movimento al brano, che sfocia in un finale davvero emozionante con notevoli linee di basso che accompagnano quelle della chitarra acustica, elettrica, del violino e del mellotron. Un brano che pur alzando la media del disco, ahimè, soffre dello stesso difetto: il cantato. Interamente in inglese, la linea vocale predomina e assoggetta quasi sempre alla propria melodia tutti gli altri strumenti, risultando ancora, dopo 4 anni, molto poco convincente. Un vero peccato perché inevitabilmente vengono compromesse anche quelle idee compositive che di base sono buone e funzionali, malgrado siano spesso disordinate e prive di un filo conduttore ben delineato; le stesse idee che, secondo scelte stilistiche personali, contribuiscono a mantenere vivo un genere musicale sorto più di quarant'anni fa.
Non so, è in programma un terzo disco? Proviamo con uno strumentale!


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Silvia Giuliani

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