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SALVA Sigh of Boreas White Knight Records 2016 SVE

Avevo già ascoltato qualcosa di questi Salva, un po’ d’anni fa. Non mi sono rimasti dei ricordi precisi ma mi restava un’impressione non piacevole di quello che doveva essere il loro primo o secondo album (con quello qui presentato siamo arrivati al quarto). Mettiamo il CD… note ampie… d’atmosfera… uhm… sembra preannunciarsi qualcosa di carino. E all’improvviso… la musica esplode e parte il cantato… e io mi ricordo il motivo della brutta impressione che mi era rimasta. Partendo appunto dal cantato, questo mi risulta sgradevole come difficilmente mi capita: situato appena un gradino al di sotto del growl, con tonalità ringhianti e volutamente aggressive, questo proviene dall’ugola non certo dorata di Per Malmberg, ideatore del progetto Salva nonché chitarrista, tastierista, mandolinista, fisarmonicista e percussionista; attorno a lui ovviamente c’è tutto il resto della band, compresi un altro tastierista e chitarrista.
La prima parte dell’album, costituita dai 15 minuti della lunga title track e dalla successiva “Elite”, sinceramente ci lascia piuttosto indifferenti, per lo meno nei momenti migliori, quando non addirittura infastiditi dalle boriose tonalità power Prog che sovente scivolano nel metal.
Fisarmonica e mandolino avrebbero fatto presupporre chissà quali tendenze folk, cosa che è vera in minima parte; l’album ci propone uno hard rock sinfonico muscolare, con sfuriate spesso al limite (e anche oltre) del thrash metal. Quando le tonalità, sia musicali che vocali, si abbassano un po’, possiamo godere di minuti musicali abbastanza interessanti, come in “Gone II”, che beneficia peraltro di alcuni dei rari momenti folk di cui si parlava, pur sempre con tonalità epiche e tronfie che appaiono talvolta un po’ goffe ed eccessive, o come nella ballad “Wings”, caratterizzata da un gradevole tappeto di tastiere, contrappuntato da note di piano e chitarra acustica che lasciano un po’ in secondo piano il cantato non proprio aggraziato.
Appena gradevole, o quanto meno divertente, appare “Queuetopia”, se non altro per le simpatiche tastiere che sembrano zampettare tra una scarica chitarristica e l’altra. Qualche momento non disprezzabile anche negli 11 minuti della conclusiva “Closed Casket”, con qualche momento di atmosfera e melodie un po’ più ampie (e addirittura un buffo accenno di reggae) che riescono a dissuaderci dal premere il tasto eject con troppo anticipo.
La band ormai ha un sound consolidato e un suo pubblico, evidentemente; la loro musica è così e, gradimento personale a parte, non si può negare che quanto viene fatto sia realizzato con professionalità e convinzione dei propri mezzi.


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Alberto Nucci

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