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MARCO RAGNI Land of blue echoes Melodic Revolution Records 2016 ITA

Per dare movimento, vita ai disegni occorre far scorrere 24 tavole al secondo. L’effetto è chiaramente noto a tutti. La musica è spesso un lavoro analogo e per farle prendere vita si stratificano parti che prese a sé sarebbero poca cosa, ma che, una volta assemblate e sovrapposte nella corretta maniera esplodono in tutta la dinamica possibile. In questo il progressive è principe: la fantasia che lo circonda, la mutevolezza, la varietà timbrica e ritmica, ne fanno l’eccellenza.
Marco Ragni sembra lavorare in questo modo, sviluppando i suoi brani sovrapponendo una ad una tutte le immagini musicali mentali, per avere un prodotto finale pronto da sfogliare in sequenza e ottenere una grande dinamicità. Il suo essere polistrumentista non fa che agevolare il compito dandogli la possibilità di gestire più campi o immagini, al contempo.
L’autore approda al progressive solo con questo suo nono lavoro, ma le sua discografia è attiva dal 1987, con lavori dapprima fortemente basati sullo stile della musica psichedelica, poi via, via, verso forme più rock.
Per questo “Land of blue echoes” alcuni strumentisti di grande professionalità completano le tracce di chitarra e tastiere, interamente incise dall’autore. Tra loro spiccano la vocalist Durga McBroom, corista dei Pink Floyd dal 1987 e il chitarrista Fernando Perdomo, utilizzato per alcune parti soliste. Compaiono anche altri musicisti, forse non troppo noti, della scena progressive come Peter Matuchniak, Colin Tench, Jeff Mack, Vance Gloster e il batterista Jacopo Ghirardini della band Stalag 17.
Il disco che ne esce fuori è, come prevedibile, molto vario e risente delle influenze degli artisti che l’autore stesso ha sempre dichiarato essere propria fonte di ispirazione, Pink Floyd prima di tutto, ma anche altre band del progressive dei ’70, band della psichedelia, dello space rock, i Beatles ecc.
L’avvio del disco non mi ha convinto, come d’altronde non mi convince nessun disco che inizi con le “voci alla radio”. Per fortuna si tratta di una manciata di secondi e il brano “Between moon and the earth” si apre in un dinamico space rock dal forte stile psichedelico. A ruota troviamo uno dei due brani lunghi, “Horizons” si presenta nel suo quarto d’ora di variabilità, comprendendo molte virate ritmiche e momenti atmosferici di tastiera (simil mellotron e simil clavicembalo) piuttosto azzeccati, nonché ampie sezioni di pianoforte e un cantato, molto particolare, che porta lo strascico del blues in arie più tipicamente settantiane.
Il disco prosegue toccando varie forme musicali, miscelando situazioni normalmente tenute distanti, pensate ad esempio un funky fusion, dal groove dentellato, messo su una lunga svisata di chitarra gilmouriana come in “Money doesn’t think”, oppure prendiamo “Canto d’amore”, brano fortemente psichedelico nell’approccio, ma molto variegato nel risultato, grazie ad una sezione di arpeggi davvero elegiaca e uno sviluppo romantico rinascimentale. Verso il finale si arriva alla lunghissima “Nucleus” e le sue otto parti per quasi ventitré minuti.
Momenti rock, momenti space, tanta, tantissima chitarra. Poi un arpeggio floydiano che introduce i vocalizzi della Durga McBroom in un tentativo di novellare e personalizzare “The great gig in the sky” o altri momenti classicamente Pinkfloydiani.
Tutto sommato, quasi settantacinque minuti di musica, piacevole e scorrevole, con qualche momento forse un ripetitivo o sentito e risentito negli anni, ma quando le ispirazioni sono così forti e decise, credo sia inevitabile. Il lavoro è comunque personale e di carattere e credo che la cosa più difficile da affrontare nell’ascolto, sia la voce di Ragni, molto particolare, sempre un po’ strascicata e poco attuale o forse un po’ distante dalla standard progressive per via del suo blues style di fondo. Peccato perché finalmente si presenta un cantate perfettamente intonato e con una elasticità notevole, ma quelle timbriche e quei modi sono per me poco digeribili. Ad esempio lo trovo nettamente più piacevole nell’ultima traccia “Queen Of Blue Fires”, brano – tra l’altro – con un notevolissimo finale.
Fine del discorso. Il disco, al di là del mio personalissimo modo di vedere le cose, è valido, promosso e pure ampiamente consigliato. È italiano, ben suonato, si sente bene e accompagna senza intoppi. Provatelo, davvero.



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Roberto Vanali

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