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ALTAVIA Kreosote White Knight Records 2016 ITA

Se qualcuno tentasse di descrivermi questo album soltanto a parole forse concluderei in modo affrettato e lapidario che non incontra i miei gusti. A dire il vero però conoscevo già il debutto degli Altavia, risalente ormai al 2011 ed intitolato "Girt Dog", quindi sapevo già del loro incredibile gusto melodico e del loro sconfinato amore per Francis Dunnery, avevo perciò una vaga idea di cosa aspettarmi e in cuor mio immaginavo già che l’esito di quest’opera non sarebbe stato così scontato. La formazione, nonostante il troppo tempo trascorso (interrotto soltanto dalla pubblicazione, nel 2012, del debutto del progetto parallelo Materya) rimane immutata ed ecco che ritroviamo ancora Andrea Stagni come leader e voce principale (oltre che chitarrista e tastierista), assieme alla aggraziata presenza di Betty Copeta, l'altra cantante di ruolo, co-artefice delle belle armonie vocali che da sempre contraddistinguono lo stile di questo gruppo. Abbiamo poi una sezione ritmica pulita e precisa, rappresentata da Giuliano Vandelli (basso) e da Marcello Bellina (batteria), ed infine una seconda chitarra elettrica, quella di Mauro Monti.
Nonostante la cittadinanza chiaramente italiana, e a parte i nomi di battesimo dei musicisti, non c'è assolutamente nulla di questa produzione che ci porti alle nostre latitudini. Inglese è l'etichetta discografica, che inaugurò la sua attività proprio con l'esordio degli Altavia, e tutto inglese è il gusto che caratterizza questo album. Di Francis Dunnery abbiamo già parlato e direi che questa fonte di ispirazione è molto chiara ma in generale troviamo riferimenti al New Prog britannico, ed in particolar modo agli IQ, oltre che ai Genesis e agli Yes nelle loro vesti più pop. Eleganza, leggerezza, scorrevolezza fanno parte del DNA del gruppo ma a queste doti che sicuramente rendono confortevole l’ascolto si associa anche la capacità di percorrere tragitti musicali non scontati.
Direi che il gruppo se la gioca tutta proprio con la traccia di apertura, “About to Fade”, la più lunga delle 8 in esame ed anche la più articolata… e preferisco usare questo aggettivo invece di altri. Non voglio scegliere di proposito il termine “complesso” perché questo brano, di ampio respiro, non mi dà mai l’idea di qualcosa di eccessivamente costruito o complicato. Questa docile traccia che stenta forse un po’ a decollare, o lo fa comunque con pacatezza, è un po’ la sintesi di tutto il disco ed è decisamente affascinante il suo progressivo arricchirsi di particolari che ne aumentano via via il grado di definizione. Momenti di elettricità e quiete vengono dosati con grazia e gli arrangiamenti sono agili ma interessanti, donando oscillazioni emotive contenute ma coinvolgenti.
“So Far so Good”, frizzante e piacevolmente fluida, mi fa pensare a qualcosa di “90125” ma con una voce che sembra però quella di un Peter Nicholls ben più intonato. Nel cuore del brano si apre un momento strumentale sinfonico e romantico con belle parti di chitarra decisamente Marillioniana e vedete come le soluzioni siano sempre semplici ma nient’affatto banali. “Road to Nowhere” fa leva sul cantato con una base musicale lieve e ripetitiva. Anche qui un oscuro intermezzo cala a ridefinire le sensazioni di ascolto. “Paradox”, notturna e quieta, si elettrifica virando verso qualcosa degli IQ in una versione più pesante grazie a buone dosi di chitarra. “Love is Worth a Try” mi ricorda stranamente qualcosa di Phil Collins solista, in una atmosfera da tiepida serata riscaldata dal confortevole fuoco di un camino. La voce di Betty segue come un’ombra quella di Andrea, muovendosi con lui in perfetta simbiosi. I guizzi delle tastiere e della chitarra solista creano giochi di luci e di ombre. Le dinamiche sono evidentemente pop ma i riflessi sono chiaramente sinfonici. “The Storm” riluce per il suo piano cameristico, con la voce malinconica di Betty e le contenute aperture classicheggianti. “You are the Sailor”, dai riff più serrati e con la batteria scandita, ha delle inflessioni new prog più spinte.
E infine eccoci alla traccia di chiusura, “Velathri”, e ci siamo arrivati quasi senza accorgersene, con le sue spinte potenti, gli echi fusion e poi le sue ampie sfumature con i cori ripetitivi in crescendo. L’album va considerato nel suo complesso e tutte le tracce fanno parte di un quadro generale più ampio fatto di atmosfere confortevoli in cui immergersi. Una grossa attenzione è stata posta a non spezzare quel filo che inevitabilmente si crea con l’ascoltatore a partire già dai primissimi minuti, senza cercare forzature e senza inutili vistosità. In tutto ciò l’ottima resa sonora gioca senza dubbio a favore. Qualcosa secondo me da provare anche se le vostre tazze di tè fossero di tutt'altro tipo.



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Jessica Attene

Collegamenti ad altre recensioni

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MATERYA Case 2012 

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