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HOLON The time is always now Autumnsongs Records 2016 NOR

Holon è praticamente il progetto solistico del chitarrista Ronny Pedersen che, per questo suo primo album, si affida alla studio e alla produzione di Rhys Marsh, il quale suona le tastiere in tutto l’album e fornisce anche contributi vocali, basso e chitarra. Oltre a lui, e ad altri ospiti, in un pezzo è anche da segnalare la presenza di Lars Fredrik Frøislie dei Wobbler all’organo. Pedersen, oltre ad occuparsi delle parti vocali principali, suona la chitarra ed il sitar.
“The Time Is Always Now” è una raccolta di 8 canzoni, quasi tutte della durata di oltre 7 minuti, che Pedersen ha scritto nel corso di diversi anni e unite da una sorta di filo logico filosofico e spirituale; le canzoni traggono influenze dal folk nordico, da una psichedelia soft un po’ anni ’60, e da un Prog sinfonico che chi già conosce le opere di Rhys non potrà che riconoscere come stare a pieno diritto nelle sue corde; è in effetti evidente la sua mano in tutto quest’album, tanto che talvolta verrebbe quasi da attribuirgliene la piena paternità.
Il brano d’avvio, “The Belly of Being”, è introdotto da sinuose note di sitar e funge in pratica da ouverture all’album; dopo una lunga introduzione il brano sembra prendere lentamente quota, salvo stopparsi su una melodia di chitarra acustica e flauto (Ketil Vestrum Einarsen), al termine della quale interviene finalmente il cantato e le ritmiche si fanno più movimentate, con la chitarra elettrica che si produce in riff e brevi assoli. Dopo un paio di brani più brevi (“The Times They Are A-Taming” e “Dancer in the Sky”) e praticamente poco più che di passaggio (pur sempre sui 7 e 5 minuti, ad ogni modo), comunque interessanti e in cui facciamo la conoscenza della gradevole voce di Pedersen, arriva la coppia centrale di brani che personalmente ritengo la vetta artistica dell’album.
Le lunghe “Fading” e “Time To Go” sono canzoni decisamente interessanti e a tratti anche entusiasmanti. La prima delle due inizia in modo piuttosto tranquillo e melodico, col duetto di voci tra Ronny e Silje Leirvik su delicato tappeto di chitarra acustica e tastiere. A metà del percorso il brano comincia a salire di tono, sempre con le due voci a duettare, fino ad un nuovo break introdotto dal flauto che conduce all’ultima sezione in cui flauto, basso e tastiere si contorcono in intrecci complessi e i due cantati continuano a rincorrersi e a ritrovarsi. La seconda traccia di cui si parlava è invece caratterizzata dallo scatenato Hammond di Frøislie che occupa bellicosamente la seconda metà della canzone, dopo che la prima ci aveva portato su sonorità vagamente alla Anekdoten.
La successiva “Two Grains of Sand”, benché più breve, è comunque molto bella, con ritmiche pulsanti un po’ anni ‘80 e l’altra bella voce femminile di Kari Harneshaug che si unisce a quella di Ronny; sul finale le morbide note di Mellotron prendono gentilmente il sopravvento.
La title track, introdotta dalle note del Rhodes, decolla quasi subito su atmosfere un po’ oscure e crimsoniane, salvo, a metà del brano, convertirsi su sonorità più pacate e soffuse, riprendendo alcune armonie della traccia iniziale e concludendosi su un tema circolare ipnotico e lentamente in crescendo. Sembrerebbe la conclusione ideale dell’album… e invece c’è l’ultima canzone, “A Drop of Me”, quasi 9 minuti dai connotati decisamente più rock, un basso ben udibile e sonorità vagamente indie.
L’album nel complesso è piuttosto bello, dalle atmosfere generali un po’ malinconiche, molto nordiche se vogliamo, anche nei rari casi in cui le ritmiche si fanno più pressanti. La mano di Marsh, come detto, si sente parecchio e possiamo dire che si tratta di un altro centro dell’ottimo musicista norvegese.



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Alberto Nucci

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