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RICHARD PINHAS / BARRY CLEVELAND Mu Cuneiform Records 2016 FRA/USA

È passato il tempo dei supergruppi progressive, è passata l’epoca dei geni musicali. Siamo rimasti solo noi tromboni del mellotron. Brontoloni, mai contenti, polemici, livorosi e rissosi, non ci va mai bene niente e chi, tra i musicisti, osa sgarrare e abbandonare la strada vecchia per la nuova (ammesso che esista) è da considerarsi un traditore, un apostata. Quindi, se c’è qualcuno che rispolvera tecniche, suoni, modi di collaborare, di far squadra e stili del passato dovremmo esaltarlo, portarlo in palmo di mano a ergersi paladino di un mondo che ormai è visto per la maggior parte degli ascoltatori come ammuffito, vecchio e senza estimatori nel mondo reale.
Personalmente dico che al giorno d’oggi ci vuole più coraggio a mantenere la linea, piuttosto che a gettarsi tra chitarre metal e ritmi serrati, nel “mondo nuovo”, Ho, credo, spero, con coerenza, sempre più rispetto per le scelte fatte per sé stessi, piuttosto che per una ipotetica e totalmente irraggiungibile massa. Quindi ho accolto questo lavoro di collaborazione altisonante con curiosità e ampia predisposizione.
Richard Pinhas è stato membro fondatore, compositore e leader assoluto degli Heldon, meravigliosa band francese che dal 1974 al 1979 ha sfornato sette dischi di alto livello, con almeno due davvero ottimi, specie il conclusivo della carriera “Stand By”. Per lo stile e le scelte musicali era noto come “Il Fripp francese” era, in effetti, anche se non sempre, piuttosto crimsoniano negli sviluppi.
Barry Cleveland, altro chitarrista, arriva invece dall’altra parte dell’oceano. È specializzato in artifici elettronici, musica sintetica e di maniera, talvolta difficile, ma molto diffusa, grazie anche a ritmiche accattivanti, loop, versatilissime pedaliere, sovraincisioni, samples ecc., con risultati finali che, guarda caso, riportavano anch’essi ai King Crimson, quelli negli ’80, però.
A completare la band, l’eccezionale bassista Michael Manring, allievo di Pastorius, con mille collaborazioni in America tra cui persino una tribute band a Miles Davis, il famoso progetto “Yo Miles!” e il batterista Celso Alberti, con collaborazioni della levatura di Steve Winwood e Herbie Mann.
Probabilmente il termine unico e risolutore per definire questa collaborazione è: manipolazione.
Alla base di tutto c’è la riscoperta di temi tra il sinfonico, lo space psichedelico, il new prog, l’elettronica minimale e quella dei corrieri cosmici, vaghe connotazioni armoniche jazz, new age, ambient e world music. Una stravagante miscela che, non meravigliamoci, porta indietro, indietro a cose belle, apprezzate, amate, ma il loro sapore è rinnovato e i suoni incisivi e dettagliati sono quelli dei giorni nostri.
I quasi cinquanta minuti di durata sono distribuiti su soli quattro brani, spicca la lunghissima suite elettronica “I wish I could talk technicolor”, quasi ventisei minuti molto fluidi, delicati e ricchi, fatti di crescendo, di buone parti melodiche, di sperimentalismi e di moderato jazz rock, che grazie allo stile compresso e pulsante di Manring, spesso esaltatore di quei modi un po’ alla Percy Jones, ci porta dritti a ricordare alcune parti di “Another Green World” di Eno o i lavori anni ’80 dei Brand X. Su tutto, o sotto a tutto, i loop e le manipolazioni delle due chitarre di Pinhas e di Cleveland arrotolati in variazioni e landscapes infiniti. Ci sono poi altri due lunghi brani, entrambi superiori ai nove minuti. “Forgotten man” è la sintesi esatta di tutto il lavoro, nella quale si trovano tutte le variabili messe in atto dal gruppo. Le chitarre synth e la moog guitar vengono a galla nel mare sonoro a sostituire le tastiere, prendendone idealmente il posto nella gestione melodica, in un andare e venire, che pur ben distante dal new prog ottantiano, ne ripresenta, incredibilmente, alcuni risultati.
“Zen/Unzen” è, invece, rappresentazione più intima e distopica del progressive, spesso disturbante, spesso alienante. Contemplativa e mentale, ma anche aperta e liberatoria. Le manipolazioni elettroniche generano archi, fiati, compressi, filtrati. Poi torna quel basso secco, sincopato, tra Pastorius e Jones, tra Berlin e Clarke, Manring è bravissimo. Tutto si trasforma in un trascinante e ricco jazz rock, ma privo di qualcosa, il jazz c’è e non c’è, arriva e se ne va, rotola in un groove, scappa in un portamento e svanisce. Bellissimo brano.
Chiude la riflessiva e ipnotica “Parting Waves” un incrocio di arpeggi su loop di EBow basso e di moog guitar. Brano evocativo, degna chiusura di un album di tanta levatura.
Un disco serio, moderno e antico, bello fino al midollo dalla prima all’ultima nota. Non tardate ad ascoltarlo.



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Roberto Vanali

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