Home
 
THE RICK RAY BAND Killing time Neurosis Records 2017 USA

Che ci si dovrebbe aspettare da uno che dal 1999 ad oggi ha sfornato ben trentatré album? Peraltro, dal 2011 vi era stata una lunga pausa dovuta ai motivi più disparati (viene citato persino l’FBI!), altrimenti… chissà a quanto si sarebbe arrivati. Fulminato artisticamente nel 1964 quando vide i Beatles all’Ed Sullivan Show, Rick Ray nel ’66 – cioè tra i sei e i sette anni di età – riceve la sua prima chitarra. Nel 1973 mette su un gruppo, i Neurotic, fino al 1985. A quel punto nasce una prima incarnazione della Rick Ray Band, per poi passare ad altri progetti e quindi risorgere sul finire del millennio. Da allora, per l’appunto, trentatré pubblicazioni in meno di vent’anni. Lavori che ovviamente hanno raggiunto lo status di culto anche grazie ai commenti iper pompati di alcuni addetti ai lavori, indipendentemente dal valore effettivo di ciascuna uscita. Di sicuro, il nostro si è dimostrato un ottimo chitarrista, come si può ascoltare per esempio in “Guitarsonist” (2002). Ogni lavoro è storia a sé, che mette assieme l’imponente mole di materiale costantemente elaborato, oltre a quello che ancora attende di essere inciso ufficialmente e che giace per ora silente negli archivi. L’aver fatto da spalla per tanti anni ad una cospicua varietà di grandi personaggi, invero abbastanza eterogenei, ha sicuramente contribuito alla creazione di brani molto diversificati tra loro; solo per fare alcuni nomi, si passa dagli Anvil ai Kansas, dai Blue Oyster Cult alla Steve Morse Band, senza dimenticare Allan Holdsworth e persino Frank Zappa con le sue Mothers of Invention. Da tempo Rick Ray ha consolidato le sue composizioni anche grazie a Rick Schultz (sax, clarinetti vari e wind synth), con cui divide le acrobazie soliste e grazie al quale i pezzi assumono una connotazione jazzy, a volte persino tendente al prog. È il caso dell’iniziale title-track, che per quanto sia senza dubbio di chiaro stampo hard rock americano (in cui tutto trasuda di “ostentata grandezza”), non può non ricordare anche i primissimi King Crimson e ancora di più i Van Der Graaf Generator, proprio per l’uso dei fiati. Non va certo dimenticato il batterista Al LeDonne, che esegue egregiamente le sue parti, certamente non facili. L’attuale bassista risulta Dave "Shaggy" Snodgrass, ma sull’album le partiture sono eseguite dallo stesso Ray, che si destreggia molto bene anche su questo strumento. Diciamo che il punto debole è il cantato, con cui il leader spesso “appiattisce” dei brani di natura hard rock a stelle e strisce, rendendoli monocorde e un po’ scialbi. Per fortuna, in pezzi come “Hologram”, “Hurry Up And Wait”, “Credits Will Roll” e “Hypnotic Spell” sono sempre presenti i famosi assoli, tanto di Schultz (nei primi due casi col synth) che di Rick Ray, il quale sfoggia uno stile decisamente pirotecnico, portando alla mente una sorta di Frank Marino senza però tonnellate di wah-wah Hendrixiano, magari mischiato ad un Michael Schenker più blues e psichedelico. Elementi, quest’ultimi due, presenti su “I Want To Hold Your Hand Grenade”, che varia spesso da un andamento più spedito ad un altro come detto blueseggiante, che conferisce così più dinamismo e colore rispetto alle precedenti composizioni. Nonostante su “Stand In Line” il leader sembri intestardirsi a cantare sempre la medesima canzone, musicalmente vanno rimarcate le cesellature jazzate di basso e sax, oltre ai consueti passaggi solisti sulle sei corde, costringendo LeDonne a fare gli straordinari dietro le pelli. Il paragone con Schenker sovviene con maggiore evidenza ascoltando l’assolo di “End Of The Day”, mentre “Rock N Rolex” parte dalle basi degli Status Quo e poi viene sviluppato con maggiore complessità. A dimostrazione della lunga gestazione delle quattordici tracce presenti, le ultime del lotto si dimostrano differenti, anche per quanto riguarda l’utilizzo della voce; “Momentary Realm” è forse l’episodio migliore, con riferimenti ai The Doors più lisergici, calati in un contesto prog e dalle tonalità vocali che emergono effettate, così come “I’m Just looking” ribadisce ancora una volta la tendenza verso la psichedelia. Anche gli assoli sono diversi, sicuramente più meditati. “No More”, dal canto suo, deve ancora una volta qualcosa a Hammill e soci; le sei corde sono sempre e comunque protagoniste in fase solista, ma il conseguente assolo di Schultz è ottimo, terminando poi tra fluttuazioni sonore. Prima di chiudere c’è “Am I Talking To Me”, tra Robin Trower e il solito “Generatore”, terminando con “Unspeakeble Words”, molto simile al brano d’apertura ma che preme maggiormente sul pedale del riff rock.
Bene, il ritorno di Rick Ray può (entro determinati limiti) essere definito anche prog, mettendo però sempre in primo piano quella che è l’anima rockeggiante del fenomeno musicale trattato. I puristi non se lo fileranno mai, questo è certo, ma nonostante gli eccessi, le ripetitività e le eclatanti stravaganze che di certo non sono consone ad un pubblico notoriamente serioso (se non quando si parla di intellettuale non sense)… beh… nonostante tutto questo, probabilmente un ascolto se la meriterebbe anche questa band di attempati scapestrati. Che comunque, al di là di tutto, sa suonare davvero bene.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

THE RICK RAY BAND Can’t lie hard enough 2011 
THE RICK RAY BAND Dark matter halo 2019 

Italian
English