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BAND OF RAIN The dust of stars autoprod. 2017 UK

Dopo sei anni dall’ultima pubblicazione, il polistrumentista britannico Chris Gill approda con il suo progetto al quinto album, sempre caratterizzato dall’ambient, dalla psichedelia e dall’alternarsi di suoni talvolta duri e talvolta rarefatti. Una storia cominciata nel 1968, quando Gill suonava il basso, e poi continuata nel 1975 con le esperienze musicali negli Stati Uniti. Dopo un grave incidente che gli avrebbe fratturato entrambe le mani, il musicista riuscirà a superare le difficoltà con un lungo periodo di pausa, ritrovando se stesso in Germania, dove nel contempo si avvicinerà all’uso dei sintetizzatori. Tornato in patria, Chris porterà finalmente avanti le nuove idee, non prima di una faticosa riabilitazione che gli consentirà di poter suonare nuovamente la chitarra a seguito di molti sforzi e di una grande forza di volontà.
Anche stavolta fa quasi tutto da solo, affidandosi di tanto in tanto a qualche altro musicista. La produzione è abbastanza buona, riuscendo così a personalizzare una proposta che in realtà non segue affatto un particolare stile univoco. Le scelte sono inoltre interlocutorie, magari apprezzabili più da chi si entusiasma per questo genere di sonorità “artificiali”. “Gurdjief” è chiaramente dedicata all’omonimo filosofo e mistico greco-armeno, che con le sue tecniche di meditazione cercava di favorire il superamento degli automatismi psicologici ed esistenziali condizionanti l'essere umano. In un’esistenza vissuta in uno stato simile alla veglia, il pensatore elaborò uno specifico metodo per ottenere un livello superiore di vitalità; forse è per questo che nel brano si comincia a suonare dopo ben tre minuti lasciandosi finalmente i rumori di fondo alle spalle, portando avanti quelle sonorità dure di cui si parlava prima e poi concedendosi degli assoli di chitarra psichedelici tipo i primi Sun Dial o il primo Bevis Frond, comunque più quieto. Quindi note veloci con timbriche scarne ed elettriche, molto agili e magari poco consistenti. Il lavoro in questione è quasi tutto strumentale, facendo eccezione soprattutto per “Toys” e la title-track, i cui testi sono stati composti e cantati da Ria Parfitt. Sono brani in cui si sente una forte propensione per la new wave più “dark”, soprattutto nella prima traccia citata, dove si pone in evidenza il contrasto tra la voce acuta femminile, un po’ gotica, con le chitarre dure e cadenzate. La seguente “Dust of Stars” risulta invece migliore, più in formato canzone. “Across a Starlight Night” ha quell’approccio Floydiano portato avanti da David Gilmour quando il gruppo rimase sotto le sue direttive, inframezzata dal sax dell’altro polistrumentista Micha Steinbacher (sembra che abbia dato un corposo contributo sia in fase di esecuzione che in quella compositiva), per poi passare ai vecchi ‘Floyd di “Obsucured by clouds”, concludendo con i rumori di un battello che si muove nella notte.
Basso in evidenza nella parte iniziale di “Ancient Electric”, con la chitarra dell’ospite Gordo Bennett che gira veloce nell’atmosfera ambient/psichedelica, i cui suoni somigliano a quelli dei turchi Siddhartha (senza comunque emularne ed eguagliarne le grandi escursioni soliste), segnalandosi così tra i pezzi più riusciti. Altrettanto interessanti sono le escursioni esotiche ed etniche di “Indian Summer”, che però non vengono sviluppate ulteriormente. “Dark Sun” è da mantra apocalittico, su “Bob” si sentono ancora i rimandi ad “Obscured…”, mentre la conclusiva “Lydian Flight” è forse la più completa, costituendo così un buon finale.
Qualcuno, come di consueto, ha parlato di gran lavoro, mentre qualche altro – pur riconoscendo che in mezzo si può trovare qualche buon elemento – ha espresso pareri non molto positivi. La verità sta un po’ nel mezzo. Sicuramente, lo si ribadisce, si tratta di un lavoro molto settoriale, che non denota chissà quale entusiasmo; ci sono però spunti che vanno ascoltati con attenzione e che comunque, in determinati contesti, possono senza dubbio costituire un efficace riempitivo.



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Michele Merenda

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