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SWUNK Soundscapes Italy Sound Lab 2017 ITA

Nati nel 2012 col nome di Swunk Infusion - in cui si evidenziava fin dalla sigla la commistione tra swing, funk e fusion -, i quattro napoletani debuttano due anni dopo con un album omonimo strumentale. In seguito rimane solo la parola swunk, che, guarda la casualità, non è un semplice neologismo ma esiste veramente: trattasi di una forma verbale arcaica inglese del periodo medievale, con cui si indicava il duro lavoro, da poter individuare anche come radice del termine forswunk, participio passato di “forswinken”, che per l’appunto viene tradotto con “superlavoro”. I nostri vanno comunque oltre, perché spesso in fase di presentazione si tende a sottolineare come questo vocabolo sia a sua volta un Ensō (come giunga ad esserlo non è però ben specificato), cioè un “cerchio”, che nel buddismo zen illustra l’Illuminazione; siccome può essere correttamente disegnato solo da una persona mentalmente e spiritualmente completa, l’indole di un artista viene rivelata dal modo in cui egli disegna tale cerchio. Un approccio all’arte grafica che in questa seconda uscita viene abbinato più che mai ai contenuti musicali, grazie anche ad un uso maggiormente tecnologico dei suoni e degli strumenti, oltre a dei veri e propri abbinamenti visivi. Vi sono da registrare sicuramente dei cambiamenti da un album all’altro, in primis nella persona di Marco “Van Gogh” Fazzari, nuovo batterista dei partenopei. E poi, come hanno già fatto presente in tanti, le atmosfere sanno molto di ambiente “urbano”, “metropolitano”, con tutte le colorazioni (anche caotiche) del caso. Il meglio viene sicuramente offerto in questi contesti, quando cioè si va oltre gli schemi precostituiti, nonostante siano formalmente impeccabili. “Standing on the Shoulders of the Giants” (con le voci registrate di Donald Trump, del Dalai Lama, di Marcello Mastroianni e di Alan Watts) è un dichiarato tributo ai grandi del jazz, mentre la seguente “Savmarine”, in cui si sente anche il canto delle balene, è dedicato al sassofonista Saverio Giugliano e ad un viaggio in sottomarino. Suona molto come una di quelle musiche da locale alternative-chic con sottofondi lounge, ponendo all’attenzione Saveri Giugliano (sax) come il protagonista dell’album fin dalle battute iniziali. “Preambolo primaverile” sembra molto più interessante, nostalgica come una di quelle vecchie contaminazioni sudamericane, dove la sezione ritmica composta da Fazzari e dal bassista Daniele De Santo tesse trame sotterranee, mentre la chitarra di Antonio Cece si rifà con moderazione al Robert Fripp che fece il suo ritorno negli anni ’80. È comunque un brano maggiormente vario rispetto ai due precedenti, salendo e scendendo più volte di intensità, con una bella apertura nei minuti finali. Il lavoro è quindi partito definitivamente; “Solaium” - il cui video curato da Daniele Rosselli mette in risalto quei ritmi urbani di cui si parlava all’inizio - è nella sua prima parte un jazz molto brioso, stile presentazione televisiva di film proiettati in sala, ma è la seconda sezione che desta un vero interesse: le smussate tendenze Crimsoniane prima appena accennate qua emergono dai vicoli bui dell’abitato e scatenano le acrobazie dissonanti di Cece sulle sei corde, trovando compimento nella seguente “118”. Un brano che vorrebbe mettere in musica col suo andamento singhiozzante l’emergenza di un attacco cardiaco e si dimostra forse il brano più progressivo del lotto, tra le evoluzioni del sassofono e delle tastiere di Giugliano. Si arriva quindi a “Ore 22:00”, così chiamato perché ad un certo punto, quando i quattro avevano finito di suonare, il computer Mac dichiarò forte e chiaro dalle casse: «Sono le ore 22:00!». Se ne è ricavato un ottimo video disegnato in 3d digitale ad opera di Walton Zed, una sorta di versione più colorata di “Sin city” (alcune immagini si trovano all’interno del digipack). È un jazz flemmatico, notturno, col sax che però suona nervoso, proprio come la nevrosi tenuta a freno con enorme sforzo dal protagonista del video, in una città distorta che scandisce un tempo prossimo alla fagocitazione. Chiudono “Buddha” e “Travel”; più energico il primo e decisamente più solare il secondo, in cui sono anche presenti passaggi di chitarra solista in stile Metheny. Il finale affidato ad un sassofono molto deciso potrebbe essere il preludio a qualcosa che verrà, nell’immediato futuro.
Questo secondo lavoro va ben oltre la sufficienza e segna sicuramente più di un passo avanti rispetto agli esordi. È uno di quegli album il cui valore soggettivo varia a seconda dei momenti in cui lo si ascolta: una volta potrebbe entusiasmare, altre volte – nonostante il sound piacevole – potrebbe spingere a passare al brano successivo, alla ricerca di qualche spunto di rilievo. L’eventuale consiglio da dare al quartetto campano, infatti, è quello di cercare di elaborare qualcosa anche in fase solista e non solo d’atmosfera complessiva, in modo tale da poter regalare all’ascoltatore dei momenti che possano essere ricordati e quindi ricercati anche dopo vari ascolti. Per il resto, se si apprezza il genere, non c’è altro appunto da muovere.



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Michele Merenda

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