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JOHANNES LULEY Qitara My Sonic Temple 2017 USA

Si era parlato di lui nel 2013, in occasione dell’uscita del suo disco di esordio, la recensione è presente anche su queste pagine. Luley è un polistrumentista originariamente conosciuto nei Moth Vellum, ottima band statunitense, dalla vita fin troppo breve.
A distanza di quattro anni dall’esordio arriva al mercato discografico con un lavoro radicalmente diverso, pare persino strano che un autore riesca a presentare due dischi così diversi in un lasso di tempo tutto sommato contenuto.
Lo spirito del disco è quello di mettere in luce i chitarristi che hanno ispirato la carriera e lo stile dell’autore, in effetti si sentono molti passaggi che rimandano in maniera più o meno diretta alle note dei grandi dello strumento con particolare attenzione a quelli di formazione jazz fusion.
Undici brani di cui nove scritti e arrangiato dall’autore e due cover, spettacolari gli arrangiamenti di entrambe, scritte da due giganti della fusion quali Jan Hammer e George Duke.
La band con la quale ha inciso questo disco è formata da strumentisti di qualità oserei dire “esagerata” e arrangiamenti che dimostrano grande capacità. Molto efficiente il drumming di Edoardo Talenti che si comporta in maniera egregia anche sulle più intricate partiture dispari e poliritmiche e ce ne sono svariate. Impressionante la capacità tecnica del tastierista Otmaro Ruiz della band di John MacLaughlin, lo stesso dicasi per il fiatista Michael Hunter della band di Lenny Ktavitz. Luley si occupa, comunque, di una buona fetta di strumentazione, quasi tutte le chitarre, molte tastiere, diverse parti di basso e tutte in maniera tecnicamente ineccepibile. Mi sentirei quasi di dover citare ogni brano, tanta è la ricchezza e la varietà di schemi e soluzioni, ma un noioso track by track non è mai (quasi) l’ideale.
Partiamo comunque dall’opener “The Doer” brano tra i migliori come ossatura e composizione, dall’avvio tranquillo, quasi ambient, poi l’esplosione in un jazz rock che si colloca a metà strada tra i Soft Machine di Seven e i Gong di You con un magnifico Katisse Buckingham, della band di Herbie Hancock, al sax. A chiudere un finale aperto in un etereo space alla Steve Hillage. Come non citare poi la soluzione ritmica in 17/8 di “Upness”, ricca melodia in stile Metheny, lunghi e centrati assolo, tromba, anche con echi di Zappa e piano.
C’è invece qualcosa di Led Zeppelin III della splendida “Sister Six”, ricca di accenni folk e indo-psichedelici. E’ l’unico brano cantato, peraltro magistralmente, da Ryan Downe anch’egli ex Moth Vellum. Fortemente zappiana la mini suite formata da “Soliloquist” e “Moonlight Mesa”, con momenti che paiono usciti dalla trilogia “Shut up and player guitars …”, anche per l’utilizzo di un ficcante reggae shaffle in 15/4. Ancora Zappa, ma nello stile di Sleep Dirt, con “Hot Sands”, con un finale davvero magistrale, esplosivo, tonalità minore, apertura di organo e una virata sinfonica per un altro brano super dalle grandi trovate melodiche. Chiudo la carrellata citando “Agni Rahasya” nella quale i King Crimson di Fripp sposano la Mahavishnu di McLaughlin, ottimo brano che scorre via in un lampo sullo sviluppo poliritmico con un ciclo di 7/8 – 6/8 – 8/8. Nel complesso non mancano riverenze, brevi e meno brevi, a Steve Hackett, a Steve Howe, persino con citazione del finale di “Awaken”, a Gilmour e ad altri giganti.
Non certo, alla fine dei conti, un album citazionistico o privo di inventiva, tutt’altro. Scontrarsi con gli stili, così diversi, così vari, seppur sempre riconoscibili, dei chitarristi citati e riuscire a metterci del proprio non è cosa da ridere e scherzare. C’è comunque umiltà, genuinità di intenti, conditi da momenti scoppiettanti, ricchi di melodia, precisione e raffinatezza.
Pieno gradimento di ascolto quindi. E se non c’è la forza o non ci sono i termini per ascriverlo a disco dell’anno (o magari sì), certamente vince il premio per il più divertente e appagante.



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Roberto Vanali

Collegamenti ad altre recensioni

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MOTH VELLUM Moth vellum 2008 
PERFECT BEINGS II 2015 
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