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PHLOX Keri MKDK 2017 EST

Amate iniziare le vostre passeggiate in salita oppure in discesa? Se vi piace partire con grande energia e con l’entusiasmo di battere subito i sentieri più impervi, allora partite pure dalla prima traccia. Se invece preferite adagiarvi subito lungo vie riposanti con le gambe leggere che volano via, allora il vostro itinerario di ascolto dovrà necessariamente partire esattamente da metà.
A distanza di ben sette anni dal loro ultimo e ottimo album in studio, “Talu”, il gruppo di Tallinn ci offre la sua sesta fatica discografica (includendo nel computo il live del 2013, composto comunque in prevalenza di inediti). Questo graditissimo e atteso ritorno è in parte minato dall’abbandono del percussionista Allan Prooso che lascia la parte ritmica che ora è interamente nella mani di Madis Zilmer. L’intervento sporadico di alcuni ospiti al violino, alla fisarmonica e allo Hiiu Kannel (una razza di salterio) non aggiunge in realtà molto al panorama.
Cosa vi sareste aspettati, qualcosa di meno dinamico? Di meno potente? E allora, non sapendo ciò che vi attende, vi spezzerete subito le gambe lungo un sentiero contorto ed imprevedibile quale appare subito dalla traccia di ingresso, “Mahlad”, ovvero “succhi”, che sicuramente non saranno a base di frutta ma di acidi biliari. La carta iniziale che il gruppo scegli di buttare subito sul tavolo è quella del rumore e della distorsione che ci piomba addosso come liquido caustico e via con ritmi marziali e strombazzamenti convulsi, quelli di Kalle Klein che usa il suo sax a volte come arma offensiva e altre volte come ammiccante strumento di persuasione. Anche quando ci si scrolla di dosso la dura scorza del rumore, pur con piacevoli inclusioni melodiche, lo spartito rimane estremamente instabile e variabile, con aperture che sfociano nel free jazz.
Quello dei Phlox è un jazz rock molto maturo, spesso con chiare inflessioni Canterburyane, che i musicisti riescono a piegare e spezzare con velocità e disinvoltura, scegliendo a volte soluzioni imprevedibili. Il compositore principale rimane Pearu Helenurm con le sue tastiere che, come al solito, preferisce i colori caldi e vibranti del Fender Rhodes. Il suo lavoro è onnipresente e dominante nell’economia del gruppo anche se ognuno qui fa sentire il suo ruolo. L’altro grande pilastro, lo abbiamo già citato, è il sassofono, vero e proprio strumento solista che guida spesso l’ascolto con le sue melodie e dialoga con tutti gli altri elementi. La chitarra di Kristo Roots è sicuramente meno propensa a lavorare su riff e muraglie di suoni ma nel suo ruolo solista, quando riesce a strapparlo agli altri, si dimostra decisamente aggressivo, come accade proprio nella traccia appena commentata.
A parte un sinistro ringhio che si sente sullo sfondo, “Rotwang” parte in modo abbastanza circospetto con sax e tastiere che si intrecciano in una spirale sempre più serrata. Ma il vero crollo nervoso lo subiamo con “Käsi”, un terremoto che dura solo 56 secondi e che include nelle macerie di un sound disconnesso la voce dell’ospite Roomet Jakapi che per lo più produce versacci abbastanza fastidiosi. Siamo quasi in cima ed è l’ora di “Plindon Tulndolnd” che si presenta come una tetra e martellante marcia dell’orrore con strappi e sconnessioni che potrebbero ricordare persino gli Univers Zero. Anche nei momenti prossimi al silenzio, quando le ombre si diradano, si percepisce un certo disagio e l’attesa è sicuramente un sinistro presagio. Forse questa veste claustrofobica è un po’ inedita per il gruppo che finora ci aveva abituati ad offese più dirette. Quando all’improvviso affiora il piano elettrico sembra quasi di respirare aria pura ed il finale è quello scorcio che non ti aspetti di veder dietro grossi rovi densi di spine.
Con “Itk” siamo finalmente in discesa e le atmosfere sono più rilassate ed avvolgenti, con il sax che si impone ancora con le sue melodie ondulate. L’inserimento della voce lamentosa e agonizzante di Roomet Jakapi (per fortuna i suoi interventi si limitano solo a due tracce) non mi pare proprio un valore aggiunto ma forse si tratterà dell’ennesimo stratagemma per spiazzarci. “Betoonpurjed” ci accoglie col suo jazz rock dalle dinamiche più fluide, anche nei momenti di accelerazione. Qui gli scenari Canterburyani sono ben decifrabili ed emerge l’instancabile e duttile lavoro del basso di Raivo Prooso. Torna protagonista la chitarra elettrica, non sferzante, ma assolutamente prodiga di assoli che si intersecano fitti col sax ed il piano elettrico. In questa formula più canonica, se vogliamo, il gruppo si muove con assoluta maestria. “750” si apre con gli arpeggi leggeri della chitarra alla quale si sovrappongono presto il sax ed il piano elettrico, insieme intrecciati a creare atmosfere di incertezza che raggiunge il massimo quando ogni suono per qualche secondo si affievolisce in un falso finale. La batteria segna il nuovo passo e il brano prende corpo con l’intervento inedito ed interessante della fisarmonica di Mari Kalkun. Sul finale il brano acquista un aspettato lirismo e ogni tensione si scioglie su sentieri più soffici.
“Puu Taga Ilves” ci conduce alla fine del nostro viaggio e un qualche alone psichedelico sfuma melodie dai contorni incerti. Sicuramente il passo è più rilassato in questa seconda metà dell’album ma vi è sempre un pizzico di imprevedibilità, passaggi ritmici non scontati, un uso parsimonioso dei suoni che non si sovrappongono mai pesantemente ma preferibilmente si intrecciano in modo complesso e delicato. Soprattutto quest’ultimo brano possiede un carattere molto live in cui tecnica ed istinto rimangono l’una al servizio dell’altro.
Sempre di più i Phlox preferiscono un approccio intellettuale allo sfoggio dei muscoli offrendoci una creazione musicale assolutamente non scontata in una insolita veste un po’ spenta e tetra, forse meno vivace che in passato ma assolutamente particolare ed emotivamente segnante. “Talu” rimane in ogni caso il mio preferito ma a un disco di questa caratura che corrode con efficace lentezza, non si può comunque dire di no.



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Jessica Attene

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