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SISARE Leaving the land V.R. Music 2018 FIN

Mi sono ritrovata ad ascoltare questo album dei Sisare, il secondo della loro discografia dopo “Nature’s Despair” del 2013, subito dopo aver assaporato l’opera terza di un altro gruppo di Turku, i Sammal, con il loro “Suuliekki”, uscito praticamente in contemporanea. Pensavo proprio alla bellezza di un album vintage che però appariva un po’ sofferente per un cantato, in madrelingua, a dir poco sgraziato. Pensavo che un album simile potesse essere scambiato con un fortunato ritrovamento di un gruppo sconosciuto ed inedito del passato e infine consideravo che forse far confluire gli elementi del passato in qualcosa di più moderno sarebbe stato per certi aspetti più interessante. E poi mi sono imbattuta appunto nei loro concittadini Sisare che in realtà partono da presupposti diametralmente opposti, vi basti pensare che iniziarono la loro carriera musicale nel 2008 come una death metal band, autrice di un demo e di un EP. L’avvicinamento al Progressive Rock è stato successivo ed è avvenuto, senza abbandonare del tutto certe ambientazioni oscure e maledette, dopo lo scioglimento che avvenne nel 2010 e l’abbandono del vecchio batterista. Questo percorso di redenzione ricorda un po’ quello degli Opeth, nella loro fase di innamoramento per il Progressive Rock e devo dire che le somiglianze con questi cugini più famosi non sono trascurabili.
Questo disco è il più Prog della loro discografia e si muove su tessuti musicali vellutati, impreziositi da una performance vocale calda e seducente affidata al chitarrista Severi Peura che ricorda un po’ per feeling Rhys Marsh. Proprio alla chitarra sono affidate le soluzioni melodiche di questo album, cupo nel sound ed estremamente compatto per quel che riguarda la strumentazione che coinvolge soltanto altri tre elementi e più precisamente Hermanni Piltti al basso, Timo Lehtonen sempre alla chitarra ed infine Rauli Elenius alla batteria. Proprio il basso appare molto evidente e dona profondità spaziale a sonorità spente e dai riflessi vintage. Il mancato uso delle tastiere forse porta ad un maggiore sviluppo dell’apparato chitarristico che non tende quasi mai a fare leva sulla potenza o sul volume ma che sviluppa in modo intelligente arrangiamenti davvero interessanti. Affinità particolari le troviamo inoltre con Landberk, Anekdoten e Porcupine Tree con qualche spolveratina post rock e riflessi psichedelici e folk. La masterizzazione è stata affidata, non a caso, a Jaime Gomez Arellano (Paradise Lost, Ulver) che ha sicuramente contribuito alla resa sonora ottimale per un album ammiccante come questo, semplice nel suo impianto e comunicativo sul piano del feeling.
A parte le considerazioni iniziali, basate su pure coincidenze di ascolto, confronti con i connazionali non li farei, è comunque curioso essersi imbattuti contemporaneamente in due anime così diverse e complementari fra loro. Una vecchio stampo e l’altra sicuramente più moderna nell’approccio. Un unico desiderio: colate di Mellotron potrebbero davvero fare la differenza perché in fondo qualcosa che manca si percepisce e questa potrebbe essere un’idea. Se il gruppo ne troverà altre le ascolteremo volentieri e per il momento non è una cattiva idea soffermarsi su questo album non superlativo né stupefacente ma assai gradevole.



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Jessica Attene

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