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FLAV MARTIN / JERRY MAROTTA Soul redemption autoprod. 2018 USA

È strano, nello stesso periodo, trovare un disco che richieda una decina di ascolti per essere compreso così da poterlo recensire con competenza e con la giusta consapevolezza e un altro per il quale pochi secondi di ogni brano siano ampiamente sufficienti per farsi un giudizio fermo e duraturo.
In questa seconda casistica ricade senz’altro questo Soul Redemption nel quale il Flav Martin, chitarrista acustico, cantore dalla serica e melodiosa voce, in coppia con il più noto ed affermato Jerry Marotta (per chi non lo ricordasse, per molti anni batterista in studio e live di Peter Gabriel e del duo Hall & Oats) si cimentano in una raccolta di canzoni, dallo stile tanto lontano dal progressive, da far davvero dubitare in merito alla fermezza mentale di chi abbia deciso di inviare ad una redazione di progressive rock un promo come questo da recensire.
Torniamo al duo di base. Abbiamo già citato Jerry Marotta e la sua porzione principale di carriera musicale, l’altro, che è anche un po’ leader, compositore e figura principale del duo, Flav Martin, possiede anche lui un vasto curriculum e qualche collaborazione di spicco come Al Stewart o David Crosby.
A completare la band un altro nome gigante al basso, niente meno di messer Tony Levin. Seguono un paio di chitarristi acustici, un pianista e, purtroppo, tale Gary Schreiner all’armonica e fisarmonica.
Ahimè, passiamo alla musica. Nove brani di cui sette scritti da Martin stesso e due di provenienza davvero strana. Abbiamo una traslitterazione, con arduo passaggio da un pop psichedelico anni ’60 ad un latino americano dallo spirito mesto e danzerino con il brano “Tell me to my face” degli Hollies di Graham Nash, parzialmente cantata in italiano e un’altra sorpresa particolarissima con la canzone sanremese di Riccardo Del Turco “Cosa hai messo nel caffè” che qui è diventata “Coffee Song” pur mantenendo interamente il testo originale e con arrangiamento nuovamente latineggiante. Cosa dire di questi due brani se non che siano la dimostrazione di ciò che Flav Martin ama e che l’amore è cosa così personale che potrebbe anche non incontrare i favori del pubblico, tanto per dire. Ma tralasciando gusti e inclinazioni personali, la riuscita, pur raffinata e melodiosa, è davvero balzana. Voglio dire: se vai sul latino e fai una “Despacito”, ti tiri addosso le ire di mezzo mondo, ma fai un pacco di soldi dall’altra metà del mondo che ti compra. Ma se vai nella stessa direzione e fai canzoni come queste, con aspirazioni melodiche e raffinate e nelle note del disco caricato sulla piattaforma Bandcamp scrivi “progressive” e “alternative rock”, ma dove vuoi arrivare?
Un tantino meglio alcune altre cose del disco. Certo, si rimane sempre nell’ambito del pop, ben suonato, ben cantato, ma sostanza davvero poca. La title track e la successiva “Please” rimangono, probabilmente, le cose migliori del disco, con il loro pop raffinato, rotolante e ben accomodato in un andamento caraibico dal sapore di telefilm americano. Pesanti, pedanti, al limite del fastidioso sono invece la maggior parte degli episodi, iniziando da “Drinking You” una sorta di fotocopia sbiadita e quasi illeggibile di certe cose seventies vagamente ispirate a Stevie Wonder, Brian Ferry e Billy Joel (prese ovviamente tutte le enormi distanze con i suddetti mostri sacri). Analogo discorso si potrebbe fare con la banalissima “Rio De Janeiro” o la ballata “Wild Moon” presa direttamente dal ponte principale di “Love Boat”.
Va bene, si è capito fatta questa recensione il disco mai più entrerà nel mio lettore, resta il fatto che al di là, ben al di là di quello che può essere un giudizio personale, strettamente personale, influenzato, ricco di pregiudizi e costrutti vari, questo lavoro è ben suonato e ben cantato, il songwriting è quel che è, ma se cercate un disco pop ben confezionato, dalle fini intuizioni dance, ecco … no, scusate, non ce la faccio, lasciate perdere.



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Roberto Vanali

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